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 2016  settembre 28 Mercoledì calendario

Può un documentario candidarsi all’Oscar come film? Dubbi e polemiche

Piccola premessa: l’osservazione di Paolo Sorrentino, sull’occasione perduta perché quest’anno l’Italia avrebbe potuto avere il doppio delle chance agli Oscar se avesse candidato “Inseparabili” come miglior film e “Fuocoammare” come miglior documentario, è ineccepibile. Soprattutto, condivisibile o meno, è un’osservazione di strategia, non di estetica. Assai diverso sarebbe stato affermare, come pure qualcuno fece a suo tempo, che “Sacro Gra” non doveva vincere il Leone d’oro perché era un documentario e non un vero film. Comunque sia, l’ondata di interesse per i documentari comincia ad avere i tratti di una moda. Il documentario esce dal ghetto dei festival specializzati, ma appare ancora un po’ senza patria. Questa situazione incerta può essere l’occasione per sollevare alcune questioni più generali e aggiornare il lessico della critica. Il cinema documentario può essere letto e giudicato con lo stesso metro del cinema di finzione? In che senso esso è, come ogni altro film, prima di tutto “bello” o “brutto”? Domande che in un certo senso anche la letteratura ha dovuto affrontare quando il Nobel a Svjatlana Aleksievic di due anni fa ha sancito (dopo decenni di new journalism)l’ingresso a pieno titolo della realtà nelle sacre stanze dell’Accademia di Svezia.
Il cinema documentario, o “cinema del reale”, come lo chiama qualcuno, non è, o non dovrebbe essere, un parente del reportage, ma nasce storicamente dal corpo centrale della storia del cinema e anzi spesso in forte legame con i movimenti d’avanguardia e le spinte di innovazione artistica. Basti pensare a Luis Buñuel, che dopo i surrealisti Un chien andalou e L’âge dor, con lo stesso spirito gira un documentario crudo e polemico come La Hurdes. Alberto Grifi, autore di Verifica incerta, caposaldo del cinema sperimentale, realizzò uno dei più bei film degli anni ‘70 con Anna, ritratto di una ragazza smarrita nella Roma post ‘68. Valorizzare la forza autonoma del reale, ci spiegano i teorici, è uno dei segni del cinema moderno. Che è, potremmo dire, quello che lascia scorrere la realtà assecondandone il tempo, e contemporaneamente (a volte nello stesso film) mette a nudo il proprio funzionamento e la soggettività del proprio autore. Del resto, per restare in Italia, chi potrebbe ragionare in termini di cronaca o di realismo davanti a film come quelli di Pietro Marcello, per i quali è stato citato il “cinema di poesia” di Pasolini? Paradossalmente, potremmo dire che, a volte, il cinema del reale non è necessariamente un cinema realista.
Il fatto è, probabilmente, che quello documentario non è un genere, ma un metodo, una maniera di comporre delle storie, “scrivendo” il film non solo prima, in fase di sceneggiatura, ma a partire da un incontro con situazioni reali. Da una quindicina d’anni, in Italia è proprio sul terreno del cinema del reale che si sono avuti molti fra i titoli più sorprendenti. Si tratta di film importanti non solo perché esploravano temi, luoghi, personaggi che il cinema di finzione trascurava, ma perché avanzavano proposte estetiche interessanti, perché facevano cinema. E questo “metodo” diventa spesso utile anche per chi fa cinema di finzione, da Garrone alla Rohrwacher.
Potremmo dire che nel cinema documentario alcuni dei problemi che ogni regista dovrebbe porsi appaiono in forma più precisa, più pura, e soprattutto più piena di implicazioni morali. A che distanza pormi (in senso ideale) da ciò che sto filmando? Quanto rimanere esterno se sto raccontando persone a cui sono vicino, e quanto avvicinarmi se sto filmando il nemico, il male? Cosa tenere fuori campo? A che punto smettere di girare? Come scegliere i frammenti da montare, imponendo una forma narrativa agli eventi? Che uso fare della musica? Tutte questioni in cui estetica e morale sono connesse. Come è forse sempre, almeno secondo i vecchi slogan della giovane critica, che definivano “abietto” un movimento di macchina troppo estetizzante, e proclamavano che «una carrellata è una questione di morale» (o, nella versione più provocatoriamente formalista, «la morale è una questione di carrellate»). Per fare un esempio, la forza di certi documentari di Stefano Savona, ad esempio viene dalla precisione istintiva con cui, anche in situazioni di emergenza (magari entrando illegalmente nella striscia di Gaza per girare
Piombo fuso) il regista trova l’immagine giusta, “mette in scena” in equilibrio tra la forza delle cose e il proprio punto di vista. La serietà e la curiosità di molti nostri registi che hanno assorbito la lezione del documentario è una sfida in un’epoca in cui la grande difficoltà è trovare una bussola tra le immagini da cui siamo circondati. Ed è in fondo una delle grandi sfide del cinema oggi, che parta da un copione o da un incontro con luoghi e persone.