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 2016  settembre 25 Domenica calendario

Quando gli scrittori scelgono un’altra lingua

Il quartiere di Fort Greene è assolato e malinconico oggi mentre vado a salutare Jhumpa, in partenza per Roma. È l’ultimo pomeriggio insieme a Brooklyn prima del suo trasferimento a Princeton e considero la nostra inquietudine alle partenze e ai ritorni, ma anche come l’esperienza del viaggio si sia basata per noi non sulla necessità ma su un privilegio anch’esso condiviso: l’amore per la letteratura. Siamo, insomma, due donne fortunate. Sedute su di un divano, l’unico mobile rimasto nel soggiorno luminoso della sua bella casa, a parte la libreria a muro, chiacchieriamo del nostro progetto comune: scrivere in un’altra lingua. Non quella madre, in cui si è agili, padrone e nel nostro caso professioniste, ma quella del cuore, in cui si saltella, si danza come la Sirenetta per il principe distratto; si muore d’amore. Per Jhumpa l’italiano, per me l’inglese.
«Un atto di coraggio, abbiamo osato», precisa Jhumpa.
Tra l’addio a questa casa e il trasferimento a Princeton c’è un passaggio nella casa dell’amata Roma. Un ponte di pace.
«O il lato di un triangolo, il terzo elemento», suggerisce Jhumpa, come fa lei quando sceglie le parole nella mia lingua, con la stessa attenzione con cui pescherebbe dallo scrigno i gioielli per adornarsi in occasione della festa. Il terzo elemento, che per entrambe ha fornito la risposta a quesiti difficili nelle nostre vite.
«Ha fatto sì che i nostri conflitti si siano distribuiti equamente dal punto di vista emotivo. Come scrivo nel mio In altre parole l’italiano ha sanato il dissidio tra il bengalese, la mia lingua d’origine, e l’inglese, la lingua adottiva, il dialogo feroce tra le due lingue».
Nel mio caso sono state invece le montagne nel Colorado, dove vissi per sette anni in semi isolamento e dove scrissi il primo romanzo, Il lungo ritorno, tentando di risanare un feroce dissidio interiore i cui termini apparenti erano New York e l’Italia. Il Colorado, da dove poi fuggii, abbandonandovi una parte di me che solo ora vado recuperando. Il ponte, questa volta? Il ponte è un romanzo in lingua inglese, ambientato lì.
È singolare il modo in cui una lingua si affaccia da dentro, la mappa che forma per farsi seguire. Scrivere in un’altra lingua significa scrivere altro. Declamo Audre Lorde:”Ma i luoghi non cambiano così tanto come ciò che in essi cerchiamo”. Tornando alla casa d’origine ci sorprende ogni volta l’amarezza di questo verso, finché ci si ostinerà a considerare peregrinazioni quelli che sono in realtà complicati stanziamenti, finché non si chiarirà come le assenze sempre più prolungate – ma da dove? – mettono in dubbio la prospettiva del ritorno, e dunque il significato di casa.
«Cercavi altro, dunque, quando hai iniziato a scrivere in inglese», coglie subito Jhumpa.
«O forse era sempre stato lì, ma non ero pronta», annuisco.
«Cerchiamo di raggiungere quello che abbiamo già dentro. E dunque la scoperta è emozionante perché c’è un riconoscimento così forte di qualcosa che non conosciamo. È un’andata ma anche un ritorno. Io, per esempio, me ne sono scappata da questa casa di Brooklyn per raggiungere un’altra casa, la casa di Roma».
Un gesto insieme reale ma anche metaforico. Rilevo: «La lingua è nuova ma conosciamo bene lo strumento con cui l’adoperiamo, la scrittura. E a un certo punto succede, ti accorgi che sei in grado di scrivere nell’altra lingua».
«Oppure è un passo trasgressivo, uno smantellamento del proprio essere, perché bisogna pensare nuovamente – daccapo. I miei pensieri in italiano sono altri da quelli in inglese. A questo punto del mio percorso linguistico sono in grado di raggiungere il significato di ogni concetto in italiano, anche se, magari, mi mancano ancora alcuni vocaboli, ma è il modo in cui dico le cose che è diverso».
«Tu dirai sempre le cose in maniera insolita, Jhumpa. Nel tuo In altre parole, freschezza e particolarità diventano la tua voce».
«Anche la tua scrittura in inglese mi colpisce per lo stesso motivo. Nel tuo inglese, Tiziana, c’è un ritmo assolutamente tuo, scelte singolari nella strutturazione delle frasi».
«L’unicità della propria voce sembra paradossalmente raddoppiata quando ci si dedica a scrivere in un’altra lingua; impossibile non arrivare alla nuova lingua dalla propria».
«Una duplice qualità. Quando scrivo in italiano, nonostante i miei pensieri vengano in italiano, l’inglese mi bracca. Poi capisco che è un compagno, che mi sostiene. Infine è una traccia che non scomparirà mai. Per citare Lalla Romano: “La mia cecità è un punto di vista”».
«La lingua madre e la lingua d’amore seguono la stessa evoluzione e si scambiano i valori: prima handicap, poi sfida, infine cifra».
«Tiziana, quando tu sei venuta a New York da ragazza è stato perché amavi la letteratura e la poesia americana. Perché hai iniziato così tardi a scrivere in inglese?».
«Mi sono data il permesso quando è morta mia madre. Non è stato un passaggio immediato ma chiarissimo. Ero partita a diciotto anni, e avevo promesso che il mio sarebbe stato solo un viaggio, ma non sono più tornata».
«Quindi la partenza ha significato una doppia rottura con la Madre, quella personale e quella con la terra d’origine».
«Sì, ma l’ho capito solo quando lei se ne è andata. E come, in quanto madre, aveva rappresentato entrambe. È sorprendente, e a conti fatti inquietante, come un percorso lavorativo, spirituale o artistico che si immagina libero, possa rivelarsi un modo inconsapevole di continuare un dialogo tenuto in sospeso con il proprio passato, o persino di scusarsi».
«Tua madre sarebbe rimasta perplessa nel leggerti in inglese?».
«Mia madre non conosceva l’inglese, la separazione tra noi sarebbe stata totale. Ecco perché solo dopo la sua morte sono emerse le parole in questa lingua».
«Dunque tua madre ha aperto una porta!... Ti capisco perfettamente. Andare in Italia per me è stata la prima separazione formale, anche geografica, dalla mia. E quando ho messo un oceano tra me e mia madre ho iniziato a scrivere in una lingua per lei impenetrabile. Mi dà uno spazio, una libertà straordinaria. L’inglese rappresenta la vita familiare mentre invece l’italiano è un percorso che ho costruito io, un nuovo panorama in ogni senso, e per certi versi, sul piano simbolico, la morte del genitore, quindi la mia autonomia. Sul piano artistico questo è importante. Trovarsi in un nuovo paese per uno scrittore non può che intensificare il rapporto con la lingua originale – metti Hemingway che va in Francia e continua a scrivere in inglese circondato da un altro contesto linguistico –, o significare, come per me, per te, per Nabokov e Beckett, un capovolgimento linguistico. C’è un elemento della mia vita costruito: diventare italiana, entrare nella vita italiana tramite la lingua, che è per me la chiave fondamentale. Un’invenzione, ma imprescindibile e molto reale. E il tuo percorso mi ispira, perché tu sei molto italiana ma colgo un’altra dimensione, che col tempo diventa un insieme. All’inizio, la tua divisione, certo, ma sei tu che lasci il tuo mondo per un altro, e cogli il nuovo».
«Certo, e il mondo rimane nuovo anche quando diventa tuo, ma non è sempre un dono: io non sarò mai americana ma neppure più italiana – soprattutto dopo la morte dei genitori è normale che si acuiscano i ricordi del passato mentre al contempo si allenti il legame con i luoghi. E c’è un momento in cui ci si accorge di aver superato una soglia: non si sarà più in grado di tornare indietro».
«È così, perché tu hai costruito una vita familiare in inglese, con le tue figlie e con tuo marito che è americano. Ma oltre i legami affettivi, il legame più forte per te, così come per me, è con la letteratura e con la città. Perché la città è le parole, e il luogo è il dizionario del luogo. Io non volevo conoscere Roma e la gente senza conoscere prima e allo stesso tempo, sempre di più, la lingua. Ascoltare parlare l’italiano mi riporta a Roma e mi radica lì. E anche per te le parole in inglese
sono New York».
«Sì. Un rapporto strettissimo, e non solo attraverso i libri. Tutta intera la città è la sua lingua: i dialetti, il jazz e infine l’architettura di questa città circondata dall’acqua, che può solo innalzarsi o implodere selvaggiamente intorno a icone statiche come tatuaggi. E a questa “isolarità” corrisponde infine l’idea della “gabbia” che non si può lasciare. Anche tu l’hai sentita a Roma?».
«Sì, e il dialogo tra New York e Roma è stato davvero duro per me. Essere stregati o schiacciati da queste città sembrano le uniche alternative, perché Roma è una città talmente forte, intensa, potente, bella, difficile, spigolosa che se non ti strega, ti mangia viva. E anche New York, se non ti strega non c’è scampo, ti aliena. All’inizio, Roma mi lasciava folgorata e, al ritorno, di New York non mi piaceva niente, ricordi?».
«Sì. E io cercavo di convincerti di quanto fosse bella! Ma la bellezza di un luogo è legata al significato che questo ha per noi. Tornando là da dove si è fuggiti, si opporrà resistenza finché non si farà pace con le ragioni della propria partenza. E fin quando far pace con quelle ragioni non è il viatico del viaggio, i luoghi del cuore non saranno amori maturi ma chimere».
«Ecco, per me era così Roma, che era stata la mia fuga, come per te New York. Quando sono tornata a New York l’autunno scorso, Roma era un amore inconsolabile».
Ma ecco di nuovo il terzo elemento, la lingua letteraria e il suo potere taumaturgico.
Racconta Jhumpa: «La traduzione di Lacci di Domenico Starnone mi ha dato un nuovo appoggio per stare a cavallo tra l’italiano e l’inglese. Muovendomi costantemente tra le lingue, trovo quell’equilibrio che cercavo a settembre al ritorno dall’Italia. È stato un processo complesso ma ora c’è una fusione fra le due città, una bella confusione, persino, ed è struggente questa partenza da New York. Amo da morire Roma e resta ancora casa, però è meglio lasciare anche Brooklyn con malinconia, perché vuol dire accettare che una parte di me appartiene a questo posto. Vorrei continuare a muovermi fra luoghi diversi ma non voglio più scappare via. Bisogna abbracciare ogni tappa e muoversi tra l’una e l’altra con leggerezza, non è così?».