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 2016  settembre 24 Sabato calendario

L’omaggio ad Aldo Moro, a cent’anni dalla nascita

«Malgrado il tempo che passa quel cadavere è sempre lì». Questo ripeteva Sandro Pertini quando dal Quirinale guardava verso Monte Mario e via del Forte Trionfale, dove Aldo Moro aveva vissuto ed era stato rapito. Lo diceva avvertendo che sull’immagine esanime dell’«uomo simbolo del dramma italiano» di allora si sarebbe bloccata la memoria di tutti, finché lo Stato non avesse «ritrovato se stesso». Per quanto lo Stato abbia poi superato la prova, è successo davvero così. Infatti solo ieri, a 38 anni dal delitto delle Br e a 100 dalla nascita, si è avuto un pieno recupero della figura del presidente della Dc, troppo a lungo imprigionata nella sfera della tragedia. A riproporne il profilo politico e di statista la cui parabola riassume «la fatica della democrazia», ha provveduto Sergio Mattarella con una cerimonia che, dopo il lontano e clamoroso strappo con le istituzioni del 1978, avrà avuto il sapore del risarcimento pure per la famiglia.
Un esempio in cui riferirci – «allora come oggi», ricorda il capo dello Stato – Moro lo fu su vari fronti e per diversi motivi. Dalla stagione nella Costituente all’attività di governo, dall’impegno sulla scena internazionale agli Anni di piombo, durante i quali il suo sequestro e omicidio segnarono uno spartiacque. Un esempio «per il coraggio e l’apertura verso il nuovo», essendo nella classe politica di quel tempo «il meno dogmatico e il più aperto alle novità». Per il «rifiuto di ogni manicheismo e la costante ricerca del dialogo». Per il suo «saper decidere», ma «ascoltando istanze critiche, esperienze inedite, nuovi orizzonti». E, insomma, per una salda «vocazione all’intesa e consapevolezza del valore del confronto». Visioni e metodi cui si è ispirato lo stesso Mattarella, nella propria formazione, e non a caso l’artefice (con Berlinguer) della solidarietà nazionale rientra nel suo Pantheon ideale. Atteggiamenti che – sembra il sottinteso – è piuttosto raro incontrare ai giorni nostri, dominati da delegittimazioni incrociate e isteriche polarizzazioni della lotta politica.
Certo, Mattarella esorta a non «pretendere di attualizzare» Moro, perché scatterebbe «il rischio di deformarlo e travisarne lineamenti e personalità». Tuttavia è difficile non cogliere nell’eredità che ha lasciato, per come la traccia lui, «suggestioni» riferibili al presente. Così del resto la vedono in molti, al Quirinale, quando rievoca la sua ricerca delle «convergenze necessarie» all’epoca della Costituente, mentre si procedeva alla «costruzione della casa comune» (ecco il cenno alla «mediazione alta, ben diversa dal compromesso al ribasso»). O quando spiega che per il «non conservatore» Moro, «l’immutabilità», intesa come spirito di «mera conservazione», era inconcepibile in quanto sarebbe equivalsa a «una rinuncia» tale da minare le stesse basi etiche della politica. O, ancora, quando quasi en passant racconta il modo di comunicare dello statista dc, che «rifuggiva da annunci fine a se stessi o da gesti plateali che avrebbero sfiorato la realtà in modo illusorio, senza riuscire a incidervi».
Tratti di un identikit che rendono inevitabile qualche rispecchiamento con l’oggi. Del resto, se si pensa a certi tentativi di reclutare Moro perfino nella campagna referendaria (sia sul fronte del «Sì» sia su quello del «No»), come si fa a non percepire nella riflessione di Mattarella un vago sapore di nostalgia?