Libero, 26 settembre 2016
Da Barroso a Goldman, tutti i conflitti d’interesse a Bruxelles
All’inizio di settembre, il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker ha aperto un’indagine sul suo predecessore, José Manuel Barroso: una decisione senza precedenti nella storia delle istituzioni europee. Juncker ha chiesto al Comitato per gli affari etici della Commissione di indagare sul nuovo lavoro di Barroso, che dopo la fine del suo mandato da presidente della Commissione, durato dal 2004 al 2014, è diventato presidente non esecutivo e consigliere di Goldman Sachs International, la filiale della banca d’affari che si occupa di Europa. Poco dopo la nomina, alcuni giornali hanno pubblicato un’indiscrezione secondo cui Barroso avrebbe consigliato la banca sulla questione dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea.
Barroso ha negato di occuparsi di Brexit per Goldman Sachs e ha aggiunto che per la banca non si occuperà di lobbying. Tecnicamente, l’ex commissario non ha violato alcuna norma del codice etico che regola l’attività dei commissari una volta terminato l’incarico. L’ex presidente, infatti, prima di accettare l’incarico ha atteso i 18 mesi di «pausa» che i regolamenti europei impongono a commissari e alti funzionari. Il comitato etico ha comunque facoltà di aprire indagini su qualunque ex membro della Commissione, anche dopo 18 mesi dalla fine del loro incarico, e valutare se il suo nuovo impiego rispetta i requisiti di «integrità e discrezione» a cui sono tenuti gli ex membri delle istituzioni europee.
L’ATTACCO DI JUNCKER
Nonostante l’assunzione dell’incarico appaia formalmente corretta, Juncker ha attaccato duramente Barroso: «È un amico e penso che sia una persona onesta», ha detto Juncker, «non ho problemi se decide di lavorare per una banca, ma non per quella banca. Goldman Sachs è una di quelle organizzazioni che consapevolmente o meno hanno contribuito all’enorme crisi finanziaria che c’è stata tra il 2007 e il 2009».
La rabbia di Juncker è comprensibile. Il presidente della Commissione conosce bene la pessima reputazione delle istituzioni europee e, per quanto possibile, sembra impegnato a migliorarla. Nell’ultimo anno di crisi dei migranti, i piani più ambiziosi per condividere la gestione dei rifugiati sono quasi sempre stati presentati dai suoi uffici e solo successivamente bocciati o disattesi dagli Stati membri. Anche sulla flessibilità, cioè la possibilità di spendere più soldi nonostante le rigide regole europee, Juncker e i suoi commissari sono stati ben più generosi dei loro predecessori, soprattutto con i Paesi del Mediterraneo e per questo hanno spesso ricevuto le critiche di esponenti del governo tedesco e dei membri più severi della Commissione.
Anche per questa ragione, probabilmente, Juncker non vuole vedere il suo lavoro rovinato da un episodio come quello di Barroso, che conferma lo stereotipo che vuole la Commissione europea succube della finanza mondiale e delle multinazionali. Non è un problema nuovo: da tempo Bruxelles è accusata di essere un covo di lobbisti. Il sito www.eulobbytours.com organizza visite virtuali ai quartier generali delle principali lobby e, se visitate la città, società specializzate possono condurvi a fare un tour di persona, simile a quello che si fa tra i monumenti e le chiese di un grande capitale.
Da anni, l’ong Corporate Europe Observatory sorveglia l’attività delle lobby nelle istituzioni europee e in particolare il fenomeno delle “porte girevoli”, revolving doors in inglese. Si tratta di quel fenomeno che accade quando un membro di un’istituzione pubblica va a lavorare per una delle società di cui si occupava nel suo precedenti incarico. Il pericolo delle “porte girevoli” è duplice: da un lato creano un incentivo a esercitare le proprie funzioni di controllo in maniera meno rigida, in modo da non scontentare un potenziale datore di lavoro futuro. Dall’altro, consentono alle società di ottenere personale con preziosi agganci all’interno delle istituzioni e in grado di influenzare i loro processi decisionali.
Il Corporate Europe Observatory mantiene anche il «Revolving doors watch», un database che contiene decine di casi di dirigenti e commissari europei che negli ultimi anni hanno abbandonato la carriera pubblica a favore di un lavoro nelle grandi multinazionali o in altre società private. Emilie Turunen, ad esempio, una europarlamentare danese che si è occupata molto di finanza, nel 2014 è diventata dirigente di Nykredit, una delle più importanti società finanziarie danesi.
Un altro caso recente è quello di Jan Eric Frydman, partner di un importante studio legale svedese che si occupa di consulenza sul commercio internazionale e che allo stesso tempo consiglia la Commissione europea proprio sullo stesso tema. Grazie al suo ruolo, nota «Revolving doors watch», Frydman ha un ampio accesso a documenti riservati della Commissione, che sarebbero molto interessanti per i suoi clienti.
NEGOZIATI SEGRETI
Secondo «Revolving doors watch, le istituzioni europee dovrebbero rafforzare ulteriormente le regole per evitare i conflitti di interessi. Ad esempio, l’ong chiede che vengano rafforzati i poteri di controllo del Comitato etico della Commissione e che sia allungato a tre anni il periodo nel quale i commissari europei e i dirigenti più importanti non possono accettare lavori di lobbying o a rischio di conflitto di interesse.
Ma quanto sono vulnerabili le istituzioni europee a questo tipo di penetrazione? Di solito la risposta è «molto». Bruxelles è considerata un città distante e remota dalla maggior parte dei cittadini europei e il controllo democratico che i media esercitano sulle sue decisioni appare molto labile. In teoria, sembra l’ambiente ideale per il prosperare del lobbisti. Negoziati segreti, come quelli per il trattato commerciale TTIP, sembrano fatti apposta per aumentare i sospetti che i funzionari europei siano in combutta con i lobbisti delle multinazionali.
IN USA VA PURE PEGGIO
Ma secondo chi ha fatto ricerca in questo campo, la situazione a Bruxelles non è peggiore di quella che si trova in tante altre capitali mondiali. Lo scorso maggio, Matia Vannoni e David Coen, due ricercatori dell’ University College di Londra, hanno pubblicato uno studio sui responsabili delle questioni europee in alcune delle principali società che operano nell’Unione. Vannoni e Coen hanno analizzato il passato professionale di 300 manager di società private che per lavoro gestiscono le questioni che hanno a che fare con l’Unione Europea. Quello che hanno scoperto è che solo il 10 per cento di questi manager in passato ha lavorato nelle istituzioni europee. I loro equivalenti americani, cioè i manager che per conto di società private si occupano di affari pubblici, hanno lavorato per il governo degli Stati Uniti nel 50 per cento dei casi.
Come notano Corporate Europe e molti altri esperti, questo non significa che il pubblico debba abbassare la guardia su quello che avviene a Bruxelles. I media, in particolare, dovrebbero esercitare maggiori pressioni affinché commissari e funzionari europei agiscano con trasparenza. Ma studi come quello di Vanoni e Coen ricordano che il problema delle lobby è comune a tutti i centri di potere. Per quanto imperfetta, l’Unione Europea si è comunque dotata di codici di comportamento per regolare il fenomeno delle lobby. L’Italia non può ancora dire di aver fatto altrettanto.