la Repubblica, 25 settembre 2016
Baz Luhrmann e la perfetta interazione tra cinema e musica, come quella che Federico Fellini aveva con Nino Rota
«La musica è l’arte universale per eccellenza, il cuore pulsante del mondo, una fonte inesauribile di ispirazione: per questo non poteva che diventare protagonista anche al cinema e il tv». Il regista australiano Baz Luhrmann, autore di opere come Moulin Rouge, Strictly Ballroom e Romeo + Juliet – dunque molto legato al musical, e attento in modo quasi maniacale alle colonne sonore – ha creato e sta producendo adesso una nuova miniserie tv per la Netflix, intolata The Get Down: una fiction centrata sulla nascita dell’hip hop a New York negli anni Settanta. Con queste premesse, non sorprende che sul potere evocativo e “letterario” delle sette note abbia le idee molto chiare.
Signor Luhrmann, sembra che per lei il cinema o la televisione di qualità siano inseparabili dalla musica: è così?
«Sì, è vero. Il fatto è che non so come raccontare una storia senza una musica in testa. Ma, rispetto alle mie creazioni precedenti, ciò che ho fatto in questa nuova serie è diverso: qui infatti utilizzo la musica nel modo più sofisticato e complesso possibile. Nel senso che la musica, che qui è l’hip hop, diventa testo, è la protagonista, la regina della sceneggiatura. Questo tipo di narrazione ci ha costretto a trovare nuove tecniche di scrittura».
Una sfida interessante, che in parte lei aveva già affrontato nel musical da grande schermo “Moulin Rouge”, costruito a partire da una serie di canzoni pop.
Che differenza c’è tra quel film e questa nuova serie tv?
«Qui è stato tutto più difficile, visto che ho preso un genere musicale spesso sovraesposto e inflazionato, e altrettanto spesso frainteso, come appunto l’hip-hop, e l’ho portato alle sue origine, cercando di decostruirlo nei suoi componenti essenziali. Ho cercato di creare un ibrido originale e mai tentato prima: una serie tv narrata come se fosse un film, un video musicale filmato come una miniserie di sei ore e una storia originale e di finzione che contiene più verità di una storia reale».
A spingerla a tentare un’ operazione così complessa sono state anche le sue collaborazioni passate con musicisti?
«Certo. Ad esempio per Il Grande Gatsby ho lavorato con Jay-Z, che ha realizzato la colonna sonora: ma il suo intervento mi ha riempito di stimoli anche sul piano della creazione della storia. È stato lui inoltre a schiudermi la mente al mondo del rap urbano e dell’hip hop, e grazie a lui ho concepito questa miniserie su dei ragazzini del Bronx che cercano di trovare il loro posto nel mondo tramite la musica, e sui genitori che cercano di proteggerli. La musica qui domina tutto, è il perno centrale romanzesco e la fonte di quell’energia maniacale che cerchiamo di catturare. Qui però ho collaborato con un altro musicista: Nas».
Secondo lei qual è la perfetta interazione tra cinema e musica?
«L’interazione tra regista e compositore, mi viene da dire. Invidio Fellini che ebbe accanto a lui Nino Rota, la più bella coppia del cinema. Ma non sono uno snob, e allora, sul piano del cinema commerciale, dico anche Spielberg e John Williams, o Tim Burton e Danny Elfman, altre due coppie che si completano benissimo a vicenda. Io non ho ancora trovato il mio alter ego musicale».
Ma più in generale qual è la musica che la ispira, che predilige?
«Di qualsiasi tipo, purché bella. Ascolto molta opera ad esempio. Ma per me la musica non va distinta in generi: l’unica distinzione è tra la musica bella e la musica brutta. La sfida è nel saper apprezzare questa distinzione. Purtroppo molta gente ascolta qualsiasi cosa l’industria gli propina, senza nessun discernimento, sforzo interpretativo, non fa alcuna analisi di gusto, per non parlare di estetica: e questo è triste».
Lei come artista potrebbe farne a meno?
«No. È un elemento assolutamente essenziale al ritmo narrativo delle mie storie: infatti io, come autore di cinema e televisione, sento musica anche quando non c’è alcuna nota suonata. Per questo mi sembrava giusto riconoscere alla musica il ruolo da protagonista, e ho concepito The Get Down».
Ma la sua scelta non è un caso isolato: perché secondo lei c’è questa tendenza attuale a fare della musica un soggetto, un personaggio?
«Perché è legata da sempre al fare cinema, o a questo tipo di tv molto simile, anche nella qualità, al cinema. Non a caso la musica è il linguaggio globale per eccellenza, più ancora del cinema, della letteratura, della politica, della pittura o di qualsiasi altra forma espressiva».
Un’arte universale, in un mondo che però sembra sempre più diviso da odi etnici, razziali, religiosi.
«La musica è invece quello che accomuna i vari continenti, è l’arte immediata che parla direttamente a tutti, che scolpisce immagini e stimola l’immaginazione senza distinzione di lingua e cultura. L’hip-hop è il linguaggio e il beat unificatore, il cuore pulsante del mondo. Per questo volevo esaminare questo cuore, come in una dissezione... ma su un corpo vivo».