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 2016  settembre 25 Domenica calendario

Il piano Junker ovvero un esperimento di finanza creativa

Se 315 miliardi vi sembran pochi, li raddoppiamo. O quasi. Poi però al momento di calare le carte si scopre che dei 315 del Piano Juncker 1.0 solo 13 erano i soldi veri, e che alla cifra indicata si arriverà solo con un irrealistico “effetto-leva” di 1:15 (un euro impegnato ne genera 15 di investimenti). Per il Piano 2.0, che nelle promesse porterà gli interventi a 502,5 miliardi entro il 2020 (Juncker inizialmente aveva parlato di raddoppio fino a 630 nel 2022), le risorse fresche aggiuntive non superano i 2,5 miliardi, e l’effetto leva dovrebbe essere ancora maggiore. Non a caso il nuovo piano annunciato con grande enfasi dal presidente della Commissione nel discorso sullo stato dell’unione il 14 settembre, incontra lo scetticismo di un nutrito gruppo di economisti europei. «Condivide con la prima versione una preoccupante fragilità finanziaria», sintetizza Marcello Messori, direttore della School of european political economy della Luiss. Viene da pensare che il numero uno di Bruxelles sia pignolo nel rinfacciare fino all’ultimo centesimo all’Italia le concessioni in termini di flessibilità, ma alquanto più disinvolto nell’annunciare le sue, di cifre.
«Non vi fate ipnotizzare, perché già il primo Piano non fa altro che promuovere interventi che sarebbero stati comunque finanziati con gli ordinari strumenti dell’Ue», avverte Daniel Gros, l’economista tedesco che dirige il Center for economic policy studies di Bruxelles. Anche da un altro think-tank della capitale europea, il Bruegel, arrivano perplessità: «Si è creato un meccanismo per cui si bloccano riserve ingenti per garantire progetti a basso rischio che avrebbero marciato comunque», spiega Gregory Claeys, che al Bruegel è ricercatore in macroeconomia internazionale. «Invece si potevano mettere quelle somme a garanzia di progetti davvero rischiosi, innovativi, magari delle piccole imprese, come del resto era nello spirito del piano». Angelo Baglioni, economista della Cattolica di Milano, puntualizza: «L’ottimismo dei calcoli sul valore nominale del primo piano, i 315 miliardi, cozza con la realtà del primo anno di applicazione nel quale la leva è stata da 1:6 a 1:9. Il piano Juncker è comunque uno strumento di intervento, ma che si possa raddoppiare come d’incanto appare velleitario».
Vediamo gli ingredienti di quest’esperimento di finanza creativa. Il primo piano doveva avere in dotazione 16 miliardi dalla Ue e 5 dalla Banca europea degli investimenti, braccio operativo dell’intera operazione. I 16 miliardi Ue servono come garanzia per gli interventi del Feis, un fondo costituito presso la Bei per attuare il piano. La Ue li ha ridotti del 50% unilateralmente, ritenendo che come garante è fin troppo solida. E siamo a 13. I soldi veri li mette la Bei, in misura anche superiore ai 5 miliardi della dotazione iniziale. Nel primo anno gli interventi sono stati di 20,4 miliardi, dei quali 13,6 varati dalla Bei-Feis e 6,8 di garanzie europee. Per sostenere le quali si sono sottratti fondi a Horizon 2020, Connecting Europe Facility e altre risorse suscitando le immancabili proteste degli interessati. Per il raddoppio non si potrà raschiare ulteriormente il fondo del barile. Una fonte potrebbe essere il vagheggiato bilancio comune europeo (quello della commissione Monti) che però appare tutt’altro che alle viste. Un’ipotesi è quella di abbassare fino al 35% il tasso di accantonamento a copertura delle garanzie poste per ogni finanziamento, ma ne farebbero le spese proprio gli investimenti a maggior rischio che sono quelli per cui il piano è nato. E la Bei ha detto di non poter impegnare più che altri 2,5 miliardi.
Messori ha ancora un’altra riserva: «Si è creato un meccanismo per cui la Cdp e le consorelle europee intervengono a sostegno del fondo di dotazione (con un massimale di 8 miliardi per tutta la durata del piano, ndr) solo però per gli interventi in Italia. Si è mancata l’occasione per veri investimenti di respiro europeo». Rincara Alberto Quadrio Curzio, economista e presidente dell’Accademia dei Lincei: «Il piano è insufficiente. Oggi gli investimenti europei sono di 300 miliardi inferiori alla media degli ultimi 18 anni, e il piano non aiuta a risollevarli». Un altro economista, Rainer Masera, ha una perplessità ancor più di fondo: «Si incentiva l’indebitamento, facile visti i tassi attuali, mentre quello di cui c’è bisogno in Europa è vero capitale di rischio».