la Repubblica, 26 settembre 2016
Romain Bardet, l’ultimo ciclista romantico
Le Bettex, Cherel, il Tour, luglio e piove. «Ho visto il Monte Bianco, ho pensato velocemente», cosa, Romain Bardet? «Ho pensato che col mio compagno Mikael Cherel qualcosa di buono si poteva fare in quella discesa». Si balzava giù dalla Cote de Domancy, la salita di Hinault, dove il Tasso fece a pezzi il Mondiale più duro di sempre, nel 1980. «Il richiamo, una specie di richiamo della foresta», pensa così Bardet, e poi, staccato Cherel, resta da solo.
Due mesi più tardi, Romain Bardet è in Italia, sta preparando il finale di stagione, il Lombardia, vorrebbe farla diventare la sua corsa, anzi no, «la mia corsa è la Liegi». Hinault ha sempre detto la stessa cosa, lo sa Bardet? «Hinault è Hinault». Ma chi è, allora, Romain Bardet? «Un ragazzo di 26 anni che in gruppo prova a far accadere le cose». Un auvergnat, come Raphael Geminiani, grande amico di Coppi, detto le Grand Fusil. Auvergne, la parte centrale di quella che un tempo i francesi definivano Diagonale du vite, la diagonale del vuoto, pochi abitanti, molti vulcani. Bardet è nato a Paulhac, meno di mille abitanti. «Da noi comanda il rugby, il ciclismo è la passione dei vecchi, Clermont-Ferrand non è lontana, ma è un altro mondo e a me piaceva il mio».
Ci si appassiona a una cosa da vecchi, ancora. Bardet è nato nel 1990. Il primo ciclismo avuto davanti agli occhi è quello di Armstrong. «Ci si innamora di quello che può darti il ciclismo, dell’aria, delle montagne», forse è così, piccolo Bardet. Una carriera nata a Chambery, nell’accademia che sta ricostruendo il ciclismo francese. Il professionismo nel 2012. Intanto la laurea in Economia e, ora, un master in management dello sport, a Grenoble. Le lezioni e gli esami online. Gli allenamenti. Una strada lunghissima. Finché, mentre Nibali vince il Tour nel 2014, Bardet arriva sesto. «Adoro Nibali, il suo modo coraggioso di correre, le sue discese». Nel 2015 vince una tappa a Saint Jean de Maurienne, attaccando una volta e forte sul Glandon e resistendo su quella meraviglia dei Lacets de Montvernier, «la gente, le mani, negli ultimi chilometri mi è sembrato di volare». Il Tour lo vince Chris Froome.
Ama Le Iene, il film. Legge molto, ogni mattina, in camera, prima delle corse: giornali, libri, ha amato Una banda di idioti di John Kennedy Toole, opera stralunata e immaginifica di un genio morto suicida prima di essere riconosciuto tale. Ha l’immaginazione, Bardet, per fare quel che, quando ha visto la schiena di Cherel, ha fatto. Una cosa rivoluzionaria: «Mi sono chiuso in me stesso, ho chiuso ogni comunicazione con l’ammiraglia, non ho guardato il potenziometro, il computer di bordo, quella cosa che ti dice quanti watt esprimi, quanto potrai durare, quando consumi. Ho seguito l’istinto». La passione dei vecchi, si diceva. «Credo che i potenziometri vadano aboliti. In allenamento sono utili, in gara sono deleteri, rovinano lo spettacolo in salita, quindi il ciclismo e i Grandi Giri. Non parlo di Froome, sappiamo bene quanto sia forte, né del modo di correre della Sky. Ma il ciclismo deve tornare ad essere il regno dell’improvvisazione». Come a Le Bettex, le braccia alzate, come a voler stringere il Monte Bianco. Il secondo posto all’ultimo Tour vuol dire avere tutta la Francia sulla canna della bici per altri 5-6 anni almeno, e se arrivasse quel giallo atteso dal 1985, ci vorrebbe Brassens, ci vorrebbe un’altra, più felice Chanson pour l’Auvergnat.
«Se a inizio anno mi sentivo più pronto per vincere una classica, adesso credo di avere la maturità giusta per vincere una grande corsa a tappe. Presto verrò anche al Giro d’Italia, non so se il prossimo anno o nel 2018, vorrei provare l’accoppiata Giro-Tour, diventata più difficile di un tempo». Sabato è stato secondo al Giro dell’Emilia dietro Chaves, altro classe 1990. Del ’90 sono anche Quintana, Dumoulin, Pinot e Aru. «Fabio è un ragazzo meraviglioso, ha le mie caratteristiche, combatteremo spesso in futuro». Si ritroveranno sabato tra Como e Bergamo al Lombardia, l’ultima Classica monumento dell’anno. «Quelle salite e il Ghisallo, il museo. Adoro l’Italia, da bambino ci venivo in vacanza, dopo il Lombardia resterò un paio di giorni. Adoro la vostra storia». Attaccherà, una volta e forte, come a Le Bettex, usando l’udito. «Al Lombardia la strada cambia mille volte sotto le ruote. Ascolterò la strada, i suoi segnali, corro così, io sono così».