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 2016  settembre 23 Venerdì calendario

In morte di Gian Luigi Rondi

Maurizio Porro per il Corriere della Sera
Gian Luigi Rondi, il critico di cinema più discusso e longevo, amico di dive e politici, è morto ieri a 94 anni. Era nato nel ’21 a Tirano, in Valtellina, ma tutta la sua vita fu a Roma, dove allacciò numerose amicizie nelle stanze del potere: era il Richelieu di quest’ambiente. Oltre che patriarca del cinema, Rondi guidò dal 1981 i David di Donatello, fu presidente della Biennale e più volte direttore della Mostra del cinema (‘71-72, ‘83-86) tra contestazioni, red carpet e roventi polemiche Stato-Chiesa (col Patriarca sui Diavoli di Ken Russell).
Nei limiti dell’età aveva affiancato Piera Detassis come presidente della Festa di Roma, fondò gli Incontri di Sorrento, il festival delle nazioni a Taormina, i premi De Sica, che pur non obbedì al comandamento dei «panni sporchi lavati in famiglia» come suggeriva l’amico Andreotti. Del cinema Rondi sapeva tutto, unendo alla teoria la conoscenza diretta, andando a scovare nouvelle vague ovunque, imbarcandosi per lunghi tragitti, anteponendo questa «missione» all’adorata famiglia, moglie e due figli, che vivevano a Parigi. Le edizioni Sabinae hanno pubblicato, con lettera dell’ex presidente Napolitano, Le mie vite allo specchio , oltre 1300 pagine con la cronistoria, scritta di getto ogni sera, della carriera di Rondi dal 1947 al 97: passa, nelle altezze e nei capricci, il meglio del cinema cui il critico dava del tu.
Iniziò spinto da Andreotti. E in quel librone si trova tutto: metafisiche discussioni e giochi di bottega, corse all’aeroporto e feste di compleanno, preghiere solenni in chiesa e pianti di dive in crisi, cocktail e comunioni, raccomandazioni e onorificenze, di cui il cavaliere e commendatore Rondi, decorato a Parigi con la Legion d’onore, faceva raccolta. Anche una per i 70 anni della Liberazione: sul suo antifascismo non c’è dubbio e di recente militava nel Pd.
Figlio di un severissimo ufficiale dei carabinieri, Gian Luigi inizia su giornali di sinistra, finché Silvio D’Amico non lo prese come vice di teatro al Tempo e quando Chiarelli lasciò il posto di critico di cinema, Rondi lo sostituì. Si trova a recensire filmoni come La grande pioggia , Angoscia , Casablanca , Bernadette , Saratoga : il 2 gennaio ‘47 la recensione di Maria Antonietta porta intera la sua firma. È fatta: sarà sempre un marchio di fabbrica, passata indenne o quasi fra cambi di casacca e rivoluzioni. Rondi riconosceva il valore estetico ed etico del cinema e se a volte sbagliava la mira era per colpa della ragion di stato, come accadde con Le mani sulla città di Rosi su cui poi fece mea culpa.
Instancabile membro di giurie di festival, nel 71 a Venezia istituisce i Leoni alla carriera che ruggirono fra le braccia di maestri, come l’amato Bergman, con cui ebbe privilegiati rapporti. È stato un testimone complice e appassionato, amante del cinema francese e giapponese, ne conosceva i segreti, entrava in ogni film come a casa sua. I Diari raccontano vizi privati e pubbliche virtù (e viceversa) di anni d’oro: intitolati pirandellianamente Le mie vite allo specchio , partono col direttore Angiolillo che gli raccomanda la chiarezza e terminano il 31 dicembre accanto a Monica Vitti nel suo ultimo brindisi cosciente.

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Natalia Aspesi per la Repubblica

Dalla sua enorme scrivania, dentro un’immensa stanza foderata di libri in un palazzo antico del centro di Roma, negli ultimi anni Gian Luigi Rondi usava il telefono come un’arma. Chiamava i critici e li elogiava o bacchettava discutendo sulle loro sapienti recensioni: perché gli piacevano, perché no. Si provava un brivido di spavento e ossequio a quella voce gentile ma inflessibile: per misteriose ragioni chiamava anche me, e per ragioni ancora più misteriose, qualche anno fa mi aveva assegnato il premio Vittorio De Sica per un mestiere che non è il mio, quello di critico.
Negli ultimi tempi, fisicamente più fragile ma sempre più rigorosamente appassionato, nelle cinesale non andava più; e non sempre i giovani delle distribuzioni, immemori, si ricordavano di inviargli i dvd dei nuovi film e lui ne soffriva, anche perché, non usando un pc, come era suo colto diritto, non poteva riceverne i link. Insomma la crudeltà o l’insipienza del mondo, lo stavano in parte privando di ciò che era stata da sempre, e continuava a essere, la sua passione, la sua vita, il cinema. Tra poco, il 3 novembre, avrebbe assegnato ancora una volta i premi Vittorio De Sica da lui creati nel 1975, non solo ai protagonisti del cinema, ma anche di altre arti.
Eppure ai tempi del suo grandioso potere istituzionale e cinepolitico, quando i partiti, il governo, trattavano il cinema come una potenziale fonte di consenso oltre che di poltrone (sostituito oggi dalla tv e dal web) Lietta Tornabuoni, la, anzi il, più grande giornalista dei nostri anni, e nella sua dolcissima ombra, pure io, il Rondi forse non lo detestavamo sul serio, ma praticavamo una specie di ironico o addirittura sarcastico rifiuto: perché era democristiano in tempi in cui se volevi essere alla moda dovevi essere di sinistra dura e pura. Come gli era ostile gran parte degli autori del cinema italiano, non Fellini ma Pasolini, non Visconti ma Maselli, e tutti gli altri che provavano per lui un rancore fantasioso, come Guttuso, come Moravia, oltre ai critici della stampa di sinistra, allora molto letta.
Era un nemico pubblico, non tanto innocente quanto geniale, a causa della sua appartenenza più cattolica che politica alla potentissima Dc (in questi ultimi anni si era iscritto al Pd), per essere amico fraterno di Andreotti, venerare Pio XII, e scrivere su un giornale come Il Tempo del tremendo Angiolillo: e Rondi che pure adorava il bel cinema compreso quello italiano, non richiedendo quel mestiere suo e di altri, inutili eroismi, pena la perdita del posto, talvolta si adattava agli anatemi del direttore che per esempio diceva «Io non ce l’ho con i recchioni, non ce l’ho con i comunisti. Ma con i recchioni comunisti sì», riferendosi a Pasolini. E di questa sua obbedienza passò la vita a vergognarsi.
Ci vollero ben nove mesi di scontri e incontri, che noi cronisti seguivamo con giubilo crudele, tra esponenti Dc pro o contro di lui, e comunisti pro o contro di lui, e addirittura l’intervento del premier di allora Emilio Colombo, perché il miglior critico italiano, organizzatore di grandi cine eventi, potesse diventare il direttore della Mostra di Venezia, sia pure con l’incarico arcano di subcommissario, nel giugno del 1971. Era l’accompagnatore alle tante mondanità legate al cinema, più richiesto da signore come Gina Lollobrigida e Carla Del Poggio, che correva fuori casa se suo marito Alberto Lattuada ci restava. Scriveva spesso di Mamma e Zia con la maiuscola, pareva un misterioso scapolone sposato con il cinema e la politica, invece in Francia ci sono una moglie, Yvette, e due figli Joel e Francesco Saverio, che andava spesso a trovare. Ma era una faccenda privata mai esibita.

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Paolo Mereghetti per il Corriere della Sera
Con Gian Luigi Rondi non scompare solo il decano dei critici (titolare sul Tempo dal 1947: un record) ma anche una delle personalità più influenti del cinema italiano, potentissimo artefice di una cultura che sarebbe riduttivo definire «cattolica» o «democristiana» ma che in quei due «valori» si riconosceva. Eclettico nei gusti come negli apparentamenti politici — partigiano con i cattolici-comunisti poi andreottiano per affinità diplomatica chiuse la vita con la tessera del Pd — fu soprattutto l’uomo dell’inclusione: voleva essere amico di tutti e usava i suoi incarichi per offrire patti e alleanze. Anche di Pasolini, che con un epigramma lo fustigò («Sei così ipocrita che quando sarai ucciso / sarai all’inferno e ti crederai in Paradiso»), Rondi diceva sempre «ma poi siamo diventati amici». Convinto che «chi non è contro di me, è con me» preferiva creare che distruggere e le manifestazioni che inventò ne sono l’evidente testimonianza, così come la sua gestione di Venezia, dalla nomina del «nemico» Bertolucci a presidente della giuria nell’anno del suo rientro come direttore dopo la contestazione del ‘72 alla presidenza della Biennale nel ’94, dove non fu certo un caso la scelta del «comunista» Pontecorvo a guida della Mostra. Non voleva essere etichettato e fece di tutto per evitarlo tendendo la mano soprattutto ai nemici. È stato un uomo molto potente proprio per la rete di alleanze che sapeva tessere: non lo nascose come certi suoi «corrispettivi» più ipocriti di lui, convinto di agire per il bene del cinema. Forse ne aveva un’idea partigiana ma l’ambizione ecumenica alla fine lo portò a difendere molto più che attaccare, a costruire più che a distruggere.

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Cristina Battocletti per Il Sole 24 Ore

Da Allen a Zurlini, passando per Bergman, Bertolucci, Buñuel, Hitchcock, Scorsese, Truffaut, Visconti: Gian Luigi Rondi, decano dei critici cinematografici, ha conosciuto i mostri sacri del cinema internazionale, cui ha dedicato gran parte della sua lunga vita. Presidente dell’Accademia del Cinema Italiano, inventore dei David di Donatello, patron del festival del cinema di Roma si è spento ieri a quasi 95 anni (li avrebbe compiuti a dicembre), di cui settanta da protagonista del grande schermo, longevità professionale che ha fatto scaturire più di qualche malevolenza. Al ruolo di critico della storica rubrica su «Il tempo», aveva infatti presto affiancato un’inossidabile attività organizzativa, che sapeva tenere insieme la macchina complessissima del cinema, dove al narcisismo si uniscono guadagni, con doti di diplomazia e fermezza. Era considerato una specie di figura andreottiana, capace di rimanere sulla cresta pur tra i marosi, tanto che Pier Pasolini nel 1961 gli aveva dedicato dei versi all’arsenico: Sei così ipocrita, che come l’ipocrisia ti avrà ucciso,/ sarai all’inferno, e ti crederai in paradiso. Da sempre vicino al mondo della politica, ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo ha ricordato per la sua «raffinatezza culturale» e come punto di riferimento per il mondo dello spettacolo.
Plurimi i suoi incarichi come giurato ai maggiori festival, oltre Venezia (1949), Berlino (1961), Cannes (1963), Rio de Janeiro (1965), San Sebastian (1968). Direttore della Mostra del cinema dall’83 all’87, ha presieduto il Festival di Locarno nel 1988 e la Biennale di Venezia dal ’93 al ’97. Con il Lido ebbe un rapporto tormentato: famosi i fischi che si attirò per aver escluso nel 1986 Velluto Blu di David Lynch, mentre era il direttore della Mostra. Sembra che non avesse voluto offuscare la memoria dell’amica Ingrid Bergman, mancata nel 1982, con l’immagine della figlia Isabella Rossellini grossolanamente svestita dal regista americano. Ma a fronte di questa polemica Rondi ricordava la richiesta di licenziamento da Commissario per aver ammesso alla Biennale nel 1971 lo scabroso I diavoli di Ken Russell.
Nato a Tirano, in Valtellina, Rondi collaborò a «Voce Operaia», organo del Movimento dei Cattolici Comunisti sotto la cui ala svolse una breve attività partigiana. Dopo la laurea in giurisprudenza nel 1945 si dedicò, grazie all’aiuto di Silvio D’Amico (anche suo testimone di nozze con Yvette Spadaccini), al teatro. Ma presto alle quinte preferì il grande schermo e dopo aver siglato la collaborazione con «Il tempo» diventò corrispondente per «Le Figaro», «Cinémonde» e «Le Film Français». Negli anni Cinquanta diventò sceneggiatore per Joseph Mankiewicz, René Clair, Jean Delannoy e Ladislao Vajda. Visse le grandi stagioni del cinema italiano, come il Neorealismo, sulla sua pelle, frequentando Roberto Rossellini e Vittorio De Sica. Ci sono foto indimenticabili di Rondi, che a 95 anni anni era l’immagine solo sciupata di se stesso da giovane, con Federico Fellini, Silvia Koscina, Nino Manfredi, Gina Lollobrigida. Probabilmente sentiva imminente la fine, tanto che quest’anno sono stati pubblicate le sue Storie di cinema (Aragno) e i suoi Diari 1947-1997 (Le mie vite allo specchio, Edizioni Sabinae) con una lettera del presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ieri lo ha salutato sottolineando il ruolo tenace di «difensore e valorizzatore del cinema italiano». Sarà strano non rivedere più la sua sciarpa bianca, il sorriso sardonico, e la sua camminata agile sui tappeti rossi che si credevano eterni.

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Fulvia Caprara per La Stampa
L’esercizio della critica illuminato dalla passione, la militanza cinematografica arricchita dalla profonda conoscenza di fatti e persone, le ragioni della politica rispettate, ma anche ripensate e circoscritte a determinati periodi storici. Raccontare la vita densa e lunga di Gian Luigi Rondi, scomparso l’altra notte nella sua casa romana, a 94 anni, significa ricostruire un pezzo cruciale della storia d’Italia, dall’immediato dopoguerra ai tempi della contrapposizione tra comunisti e democristiani, passando per il Sessantotto e per gli Anni di piombo, arrivando ai 2000 del web e dei social.
Il filo che lega tutto, dal 1947 - quando Rondi, antifascista e partigiano, si iscrive alla Democrazia Cristiana e inizia a firmare recensioni sulla Rivista del Cinematografo, sulla Fiera letteraria, su Le Figaro e su Cinemonde - è la pellicola. Metri e metri di celluloide che si snodano sotto gli occhi di un giovane intellettuale cattolico, schierato con l’ideologia andreottiana, attento alle indicazioni dei direttori del suo giornale, Il Tempo, prima Renato Angiolillo, poi Gianni Letta.
Contrasti e amicizie
Posizioni che lo guidarono, talvolta, verso clamorosi contrasti, come quello con Pier Paolo Pasolini, o verso valutazioni inadeguate, come quella riservata alle Mani sulla città di Francesco Rosi, premiato alla Mostra di Venezia ma osteggiato dalla destra. D’altra parte, perfino l’amico Vittorio De Sica, colpevole di infrangere, con la pratica del neorealismo, la regola dei «panni sporchi si lavano in casa», fu recuperato anni dopo, quando fu chiaro che l’arte non poteva piegarsi alle logiche dello status quo.
Scrivere dei registi e delle loro opere, annotare ogni evento in diari minuziosi, girare il mondo per seguire festival e restare in Italia per inventarli, dirigerli, promuoverli. E poi frequentare registi e attrici, diventarne amico come con Anna Magnani, Monica Vitti, Gina Lollobrigida, dirigere documentari, creare una famiglia con la moglie Yvette, scomparsa quattro anni fa. L’esistenza di Rondi è segnata da una vivace operosità, dalla voglia di fare, anche quando le forze venivano meno.
Fino all’epilogo, Rondi è stato impegnato sul fronte dell’Accademia dei David di Donatello, la sua creatura più preziosa. E, rompendo l’abitudine di guardare i film a casa, aveva voluto seguire in una saletta di Rai Cinema, il film di Ermanno Olmi, Torneranno i prati, ricavandone una commozione forte, da lacrime agli occhi. Più dell’interminabile elenco di cariche, direttore e poi presidente della Mostra di Venezia, Presidente della Fondazione Cinema per Roma, Cavaliere di Gran Croce, insignito (4 volte) dei titoli dell’Ordine di Malta e della Legion d’onore francese, parlano di Rondi gli episodi celebri.
L’anno (1971) in cui fronteggiò la protesta degli autori che disertarono la Mostra e organizzarono un controfestival. La volta che, dopo aver visto Velluto blu di David Lynch, decise di non selezionarlo perché l’affetto verso Ingrid Bergman e Roberto Rossellini gli rendeva difficile digerire le immagini troppo osé della figlia Isabella. E quella in cui ebbe il coraggio di portare al Lido il dissacrante Ken Russell dei Diavoli.
Con il tempo, alle proiezioni riservate alla stampa, l’apparizione della sua sciarpa candida era diventata segno di grandi occasioni. La voce flebile e i passi brevi erano inevitabili regali dell’età, come la malinconia di non poter più scambiare idee con i vecchi amici: «Adesso con chi si va cena?», aveva detto concludendo un intervento a una puntata di Hollywood Party condotta da Enrico Magrelli.
Restava vivo il desiderio di raccontare e raccontarsi, come nel documentario di Giorgio Treves Vita, Cinema e Passione, e come nei Diari, 1300 pagine (precedute da un intervento dell’ex presidente Napolitano) piene di confessioni e ricordi. Dalle feste ai viaggi, dalle dispute fra critici agli incontri con personalità della Chiesa e del governo. Senza dimenticare le osservazioni personali. Per esempio quella con cui descrive con amabile ironia una Lollo colpita, a New York, dal fascino di Rudolf Nureyev. Altri tempi, altri furori. Rondi li ha attraversati fino in fondo, con la tenacia dei grandi amori.