Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  settembre 22 Giovedì calendario

In morte del regista Curtis Hanson

Fabio Ferzetti per Il Messaggero
C’è qualcosa di malinconico e insieme di significativo nella scomparsa di Curtis Hanson, il regista di L.A. Confidential e di 8 Mile, per citare solo i suoi due titoli più famosi, morto nella sua casa di Los Angeles a 71 anni ma ritiratosi già da qualche tempo per via di un male sempre più dilagante e sinistramente metaforico come l’Alzheimer, che mina alla radice memoria e identità.
Con la sua filmografia non abbondantissima ma ricca di titoli interessanti quando non eccellenti, e tutti molto diversi tra loro, Hanson è infatti il perfetto emblema di una figura sempre più rara nella Hollywood drogata di successo dei nostri anni. Quella del grande professionista che non lega il suo nome a uno stile riconoscibile e preciso, a un genere particolare o a uno o più divi, ma tenta con discrezione di costruire una carriera come quelle che una volta fiorivano all’ombra dello studio system.
I suoi titoli parlano da soli. Il più celebre è l’ormai lontano L.A. Confidential, dal romanzo di James Ellroy: 9 candidature all’Oscar e 2 statuette vinte nel 1998, per Kim Basinger, attrice non protagonista, e per la sceneggiatura di Brian Helgeland e dello stesso Hanson. Il più popolare resta invece 8 mile, pseudo biografia di Eminem che partendo dal vecchio schema dell’eroe in lotta contro il mondo (Eminem, unico bianco in un microcosmo dominato dai neri) e incrociando con disinvoltura i codici di vari generi riusciva a raccontare la cultura hip-hop, le sue regole, il suo fascino, la sua durezza, con uno slancio e un’aderenza insoliti a Hollywood.
Tra questi due innegabili successi figura un film che in Europa piacque molto, almeno al pubblico più attento, ma in America passò abbastanza inosservato malgrado il cast stellare: Wonder Boys, con Michael Douglas ex ragazzo prodigio ritiratosi a insegnare scrittura creativa a Pittsburgh, anche per dimenticare i suoi sogni giovanili, visto che a 50 anni suonati non riesce a finire il suo secondo libro. C’era dietro un romanzo di Michael Chabon ma è difficile non pensare, oggi, che quella commedia universitaria dominata da un protagonista di mezz’età non celasse risvolti personali.
Come quella passione per il cinema di una volta (in Wonder Boys l’allievo prediletto Tobey Maguire sa a memoria tutti i divi di Hollywood morti suicidi in ordine alfabetico!) che era tra i pochi tic riconoscibili nei film di Hanson, non a caso ex presidente degli archivi audiovisivi della Ucla, ma anche fiero nemico di quell’invadente chiacchiericcio cinèfilo che oggi ha sostituito la vera passione per il cinema.
Che un personaggio così fosse destinato a finire ai margini in tempi di blockbuster e formule vuote e invadenti era abbastanza scontato. Ma forse lui stesso lo aveva messo in conto. Non si dirige un film zeppo di doppi, riflessi, illusioni come L.A. Confidential, grande noir sul cinema, senza sapere che rischi si corrono. Soprattutto per chi si ostina a mantenere un’identità senza per questo diventare un marchio.

***

Cinzia Romani per il Giornale
Il suo L.A. Confidential (1997), denso film noir con un cast di stelle – da Kevin Spacey a Kim Basinger e Danny DeVito –, ambientato nella torbida Los Angeles degli anni Cinquanta, rivelò la bravura di Russell Crowe. Un successo popolare, con i suoi 126 milioni di dollari al box office mondiale, che il 71enne Curtis Hanson, regista di quel lavoro premio Oscar morto d’infarto martedì nella sua casa di Hollywood, aveva tratto dall’omonimo romanzo di James Ellroy, adattandolo per il cinema insieme a Brian Helgeland. Ci fu un Oscar anche per Kim Basinger (migliore attrice non protagonista, mentre Hanson, che era candidato anche alla regia, vinse quello per la migliore sceneggiatura non originale), indimenticabile come escort sosia di Veronica Lake, che fa perdere la testa ai potenti hollywoodiani e al tenace detective Bud White, impersonato dal «Gladiatore» alla sua prima prova importante.
Hanson, autore di Il fiume della paura (1994), Wonder Boys (2000), 8 Mile (2002) e In Her Shoes. Se fossi lei (2005), ormai si era ritirato dalla scena: soffriva di Alzheimer. Un duro colpo per la sua mente brillante, capace di combinare insieme stili e attori diversi. Come quando arruolò il rapper hip-hop Eminem, per calarlo nella storia di povertà e di disagio raccontata in 8 Mile, il maggior successo commerciale di Hanson, con 242 milioni di dollari al botteghino.
Nato il 23 marzo 1945 a Reno, città del Nevada famosa per i matrimoni-lampo, l’autore era cresciuto nella «Città degli Angeli», dov’era approdato nei Settanta per lavorare come fotografo, scrittore e redattore di riviste di cinema, inserendosi nel gruppo artistico-hippy di San Fernando Valley. «È stata quella la mia scuola», ripeteva spesso nelle interviste. Ma fu il thriller psicologico La mano sulla culla (1992) il suo primo, vero successo, dove narrava i misfatti d’una governante assetata di vendetta, interpretata dal premio Oscar Rebecca De Mornay. Di fatto, ad Hanson piaceva esplorare le più inconfessate nevrosi dell’animo umano, fino a sfiorare l’«horror» e la psicopatia, come in Cattive compagnie (Bad Influence, 1990), col fascinoso malato di mente Rob Lowe. L’attore su Twitter ha scritto: «È stato un onore lavorare con lui. Così affascinante, gentile e grande narratore di storie. Mi mancherà».
Da bravo self-made man, uso a mischiare generi e interpretazioni, impiegò una strepitosa Meryl Streep per indagare tra le nevrosi familiari in Il fiume della paura, affidando poi alle sexy Cameron Diaz e Toni Collette lo scabroso tema della rivalità tra sorelle (Se fossi lei), risolto da nonna Shirley MacLaine. «Ogni personaggio va alla ricerca di se stesso, si guarda dentro e ne prova terrore», spiegò parlando del suo debutto cinematografico, Sensualità morbosa (1974), dove Tab Hunter, ex-idolo delle adolescenti anni Cinquanta, diventa un sessuomane psicopatico. «Ho sempre voluto indagare sulle differenze tra realtà e illusione e sul perché la gente appare in un modo e, poi, è in un altro. Ovviamente Hollywood, la città delle illusioni, mi calza a pennello».
Nel 2011, il regista aveva diretto un film sulla crisi finanziaria per la Hbo, Too Big to Fail e nel 2012 Chasing Mavericks, con Gerard Butler. Non che Hanson, prima di L.A. Confidential, fosse un beniamino della critica, che lo riteneva uno specialista di thriller usa-e-getta. Soltanto dopo vent’anni di prove riuscì a fare il film che voleva, appunto L.A. Confidential e la critica proclamò, all’unisono, che si trattava del miglior thriller di sempre, dopo Chinatown di Roman Polanski. «Ce l’ho messa tutta, per anni. Ero paralizzato dalla paura di non farcela. Ora mi sono liberato: meglio tardi che mai!», rivelò a Variety dopo aver ricevuto l’Oscar.