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 2016  settembre 21 Mercoledì calendario

La recensione di “Bridget Jones’s Baby” di Mereghetti

Ha impiegato dodici anni a tornare (Che pasticcio, Bridget Jones! del 2004, aveva nel titolo il giudizio – inequivocabile – sulla sua qualità) ma i 43 anni che dichiara e sui cui festeggiamenti partono le nuove disavventure della «zitella» più famosa d’Inghilterra non ne hanno intaccato né la simpatia né l’energia. E probabilmente questo lungo intervallo (il primo film, Il diario di Bridget Jones, era del 2001) è stato necessario per evitare ripetizioni e rimasticature troppo simili. La trentenne di ieri, ossessionata dal suo essere nubile e dal suo peso, è diventata la quarantatreenne di oggi, sempre sola ma più conscia di sé, almeno sul lavoro dove è «news top manager» di un canale tv.
Il film, che svela già dal titolo dove andrà a parare – Bridget Jones’s Baby – inizia con il triste compleanno da celebrare sola in casa, dopo una serie di rinunce che hanno mandato a monte i previsti festeggiamenti. E dopo la telefonata della madre (Gemma Jones) che introduce, con la sua incapacità di usare correttamente Skype, l’altro filo rosso del film: lo scontro – in questo caso l’«incomprensione»: pensa di dover usare il telefonino come ha sempre fatto e Bridget vede l’orecchio della mamma invece del viso – tra il vecchio e il nuovo. Una guerra che la protagonista ritrova sul posto di lavoro con l’arrivo di una nuova direttrice del tg (Kate O’Flynn) decisa a riconquistare audience con massicce dosi di vacuità pop.
Dal punto di vista sentimentale il caso sembra aver messo fine ai suoi storici dubbi: Daniel Cleaver (Hugh Grant) è morto e al suo funerale Bridget incontra uno sposatissimo Mark Darcy (Colin Firth).
Per questo, dopo i fallimentari festeggiamenti dei 43 anni, accetta l’invito della amica e collega Miranda (Sarah Solemani) per un weekend a un festival rock dove si esibisce Ed Sheeran (che le due nemmeno riconoscono: ancora un segnale della differenza tra nuovo e vecchio) e dove finirà più meno involontariamente nel letto di un intraprendente americano (Patrick Dempsey) da cui nemmeno si farà dare il nome. Ma prima di scoprire che si tratta di un miliardario, che ha inventato l’«algoritmo dell’amore», Bridget finisce a letto anche con Darcy, che sembrava sposato e invece era sul punto di divorziare. Così, quando un’impassibile ginecologa (Emma Thompson) le conferma il suo stato interessante, la futura mamma dovrà anche capire chi può essere il padre.
Richiamata alla guida la regista del primo film, Sharon Maguire, coinvolta nella sceneggiatura Emma Thompson (insieme a Dan Mazer e all’inventrice del personaggio letterario, Helen Fielding), il film mantiene il tono a cavallo tra farsa generazionale e soap-opera amorosa, non si frena molto sul lato di una certa «libertà di linguaggio» (per restituire con una buona dose di realismo i discorsi femminili sul sesso e sugli uomini) ma soprattutto inanella una serie di situazioni decisamente comiche dove lo scontro tra «vecchio» e «nuovo» passa anche attraverso il confronto tra l’aitante innovatore americano e l’ingessato avvocato inglese. Campionessa di una femminilità curvy e romantica anche se costretta a sembrare self-controlled e indipendente, la «nuova» Bridget Jones, cui Renée Zellweger offre il suo viso accattivante e non particolarmente segnato dai presunti interventi chirurgici, si trova a fare i conti con un mondo dove nessuno sembra capace di controllare quel che accade (le disavventure professionali di Bridget e Miranda sono da antologia, la sua goffaggine nei momenti topici è ormai paradigmatica) e dove i due spasimanti – in guerra l’un contro l’altro ma «democraticamente» pronti ad aiutare la futura mamma (la scena del corso prematrimoniale è il vertice comico del film) – ribadiscono lo scontro generazionale già visto sul luogo di lavoro.
Ma è Emma Thompson a dare il ritmo al film con le sue visite ginecologiche, che rivelano un’attrice comica fino a ieri nascosta da altri ruoli.
Se nell’ultimissima scena, il titolo di un giornale annuncia un probabile sequel, ci auguriamo che accanto alla Zellweger non manchi il tocco sarcastico-ironico di una grandissima Thompson. Il film ne guadagnerebbe di sicuro.