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 2016  settembre 21 Mercoledì calendario

«Tra 25 anni si continuerà ad usare il petrolio, ma sarà petrolio prodotto a basso costo». Parola di Ed Morse, l’economista energetico di Citygroup

Nel 2007-2008 Ed Morse lo disse chiaramente: il petrolio a 150 dollari al barile era insostenibile, e il prezzo doveva scendere con conseguenze fragorose. Oggi invece l’economista energetico di Citigroup, uno dei guru del settore, spiega che c’è un sacco di petrolio e gas, e che le quotazioni non risaliranno.
Partecipando a “The future of Energy”, organizzato da The European House-Ambrosetti con Eni, ha detto che davanti a noi c’è un futuro di energia a prezzi bassi.
«Sì. Magari più alti rispetto a qualche tempo fa, ma inferiori alle attese di molti. Per il petrolio si può immaginare prudenzialmente un range tra 60 e 80 dollari al barile, ma si potrebbe anche arrivare a una forchetta tra i 45 e i 60 dollari. Così anche per il gas naturale, con un prezzo sul mercato Usa sui 3-3,50 dollari per milione di Btu».
Questo potrebbe rendere non più economici i grandi progetti d’investimento in idrocarburi?
«Dipende. Il progetto dei norvegesi di Statoil in Artico, ad esempio, dovrebbe produrre 660 mila barili al giorno per un prezzo complessivo di 30 dollari al barile. Dunque, sarà molto competitivo rispetto a un pozzo di shale oil, che al massimo può dare 4 mila barili al giorno. Alcuni progetti di trivellazioni in acque profonde però potrebbero essere messi da parte o abbandonati. Le grandi piattaforme in mare costano care, e ci vogliono anni per ammortizzare l’investimento; un pozzo dishale oil o un impianto fotovoltaico o eolico richiedono investimenti molto minori. Non è escluso dunque che nuovi operatori possono affacciarsi sul mercato attraverso lo shale o le rinnovabili, e creare problemi anche ai colossi dell’oil & gas e della produzione di elettricità».
Le fonti rinnovabili, indispensabili per evitare il disastro del cambiamento climatico, finiranno fuori mercato?
«I prezzi bassi di gas e petrolio sono una grande sfida per le rinnovabili. Ma già oggi il solare e soprattutto l’eolico sono molto competitivi anche rispetto anche ai combustibili fossili meno cari. Il problema è che continuano ad essere fonti discontinue, interrompibili; finché non c’è un grosso salto di qualità nella capacità di accumulare questa energia è impossibile pensare che possano rimpiazzare completamente i combustibili fossili. E poi servono politiche pubbliche adeguate, diverse da quelle adottate finora dall’Europa».
Ovvero?
«I meccanismi Ue dei certificati di emissione hanno paradossalmente reso più conveniente il ricorso al carbone ai danni del gas naturale, che è una fonte energetica più pulita. Il risultato è che negli Usa si sono ridotti notevolmente i consumi, e il carbone Usa così a buon mercato invece si esporta in Germania e Olanda, ma anche in Italia e Gran Bretagna».
Molti – gli ambientalisti, ma anche aziende come l’Eni – propongono di tassare le emissioni. È la soluzione giusta?
«Secondo me sarebbe una soluzione molto efficiente. Certamente più valida dell’Emissions Trading Scheme europeo».
Di recente tante importanti società Usa del settore del carbone sono fallite. In futuro potrebbe accadere lo stesso fenomeno anche nell’oil & gas?
«Come disse un famoso ministro del petrolio saudita, l’Età della Pietra non è finita per mancanza di pietre. Nel mondo c’è tantissimo carbone a buon mercato, ma gli scambi e i consumi di carbone probabilmente hanno raggiunto il picco quattro-cinque anni fa. Questo non significa che il carbone sparirà, ma che vincerà il carbone a basso costo. Decenni fa il petrolio a basso costo era concentrato nei paesi Opec, che controllando la produzione potevano diventare ricchissimi. Ma oggi sappiamo che c’è tanto petrolio a buon mercato, e dunque ai paesi Opec conviene produrre e vendere ora, finché i prezzi sono relativamente alti. La mia previsione è che tra 25 anni si continuerà ad usare massicciamente il petrolio, ma sarà petrolio prodotto a basso costo. Potrà avere problemi chi produce in alto mare o chi adopera le sabbie bituminose».
Questo nuovo scenario energetico che conseguenze geopolitiche potrebbe avere?
«È molto difficile per un Paese uscire da una monocoltura produttiva: che sia agricola, industriale o mineraria. Dubai, che un tempo viveva di petrolio, oggi non ne produce una goccia e ha un’economia diversificata. Anche la Norvegia gestirà bene questo passaggio. Si tratta di una sfida imponente: è possibile che paesi come il Venezuela e la Nigeria possano avere invece difficoltà a uscire dalla monocoltura petrolifera. E c’è un pericolo: se un Paese petrolifero dovesse “saltare”, e non riuscire a compiere questa transizione, potrebbe diventare un brodo di coltura per il terrorismo globale».