la Repubblica, 21 settembre 2016
Arbasino alla Komische Oper in una sera di Turandot. Cronaca di una serata
Questa Komische Oper berlinese volta le spalle e la faccia alla compostezza nell’allestimento, alla puntualità senza sbavature nella caratterizzazione dei personaggi, alle lezioni di stile fatte con musicalità, omogeneità, leggerezza, eleganza. Ha lasciato indietro i sicuri terreni della convenzione, e si abbandona alle più stimolanti eccitazioni dell’esperimento: dalla vagotonia del realismo agli espressionismi piti simpaticotonici. Con un’inesausta ricchezza d’invenzioni, Felsenstein riesce a ficcare una quantità d’oggetti incredibili nella sua interpreta
zione d’ogni opera.
Ma anche i suoi allievi non arretrano di fronte all’Eccesso. Basta entrare nella hall del bel teatro rococò, crema e oro, con tante divinità di stucco che pendono dal soffitto; salire le scale; esaminare le diapositive a colori delle produzioni più cospicue, attaccate su tutte le pareti disponibili. Lo scenografo di Felsenstein, Rudolf Heinrich, esclude qualunque Babuino, e ogni schiaparellismo più o meno surreale a questa Komische Oper.
Sono capitato a questa Komische Oper in una sera di Turandot, così l’apparato del palcoscenico era tutto sul barbarico: grate ritorte, tipo Klee in ferro battuto, al posto del sipario; quinte di finto marmo verde prolungate fino a coprire i palchi di proscenico; e un grosso gong carico di emblemi appeso sopra l’orchestra, come se si fosse alla Locanda della Settima Felicità nelle baracconate con Ingrid Bergman. Il cielo, appena s’illumina perché comincia, è un cielo molto à la page: conosce Dubuffet. E le masse rantolano come in una Buona terra diretta da Brecht. Le guardie che le tormentano arrivano dritte da qualche Aleksandr Nevskij, ancora con su le loro armature da Ordine Teutonico. E quelle medesime cose di cattiveria col debole.
La sala è larga, bassa, con un ampio ordine di palchi e una vasta galleria. Una poltrona costa pochissimo, cinque o seicento lire, e gli spettatori sono quasi tutti giovani, coi loro abiti blu e un gran traffico di pettinini. Anche una giacca da smoking a fili d’oro, come i teddy-boys qualche anno fa. Gli spettacoli cominciano verso le sette e mezza, e finiscono per le dieci.
Tutto un decadentismo isterico, e tanta roba in scena. Si vede meglio ovviamente nei Fra Diavoli o nei Racconti di Hoffmann. Ma anche la loro Traviata dev’essere ghiotta: l’entrata dei toreri in casa di Flora è puro Baden-Baden, mentre il banchetto del primo atto diventa un Palazzo del Ghiaccio, coi suoi Pattinatori di Waldteufel. L’Otello invece pare semplicissimo, con poche scene essenziali, molto giapponesi.
Nelle bacheche delle informazioni, solo «Lenin vi risponde» e «Liberate Angela Davis». Nell’unica vecchia catapecchia fra i baracconi nuovi all’amianto dell’Alexandrplatz, in uno stanzino dietro i bidoni di minestrone per la caserma di polizia (puro Kafka) bisognava versare quindici marchi occidentali per un salvacondotto da ritirare l’indomani, dopo aver rifatto la coda nonché le procedure e le perquisizioni d’ingresso.
Code da Dottor Zivago alla stazione di Berlino-Est, con tutti che dovevano compilare pacchi di certificati e moduli. Consultazioni affannose coi parenti e i vicini. Contestazioni concitate con gli impiegati agli sportelli.
E poi sul treno, non uno che non venga redarguito e spesso multato da controllori tremendissimi… Molti abusivi protervi, perfino una vecchia con biglietto per soldato in licenza. A me viene soltanto bucato il ritorno invece dell’andata: ma questo implica un verbale con testimonianze ricopiate, in mancanza di carta carbone.
Treno internazionale, benché pieno di galline sui sedili. Conduttori bulgari, capitani ungheresi, ma l’ufficiale cecoslovacco con aquile sul berretto sarà un generale dell’aeronautica che fa la borsa nera, o un venditore di sigarette? E tentando di arrivarci in macchina dalla Polonia, i controlli ai posti di blocco e lungo la strada (antica come Augusto III) portavano via l’intera giornata: si arrivava per la chiusura, e non si aveva l’autorizzazione per pernottare, se non a Varsavia o a Breslavia, con itinerari e tempi tassativi.
A livello di popolo, baracche di timbri, procedure poliziesche, cattedre di poliziotte d’una grassezza e terribilità o giovialità da rasentare il teratologico o il macchiettistico. E il pagamento dei cinque marchi d’ingresso nella Ddr, con cataste di moduli e vessazioni surreali per tremila lire, quando basterebbe una cassiera come al cinema.
L’andata a Dresda, per la Pinacoteca, era diventata peggio di ogni Gita al Faro. Gli uffici turistici di Berlino-Est erano pieni solo di volantini contro l’imperialismo e di burocrati senza mappe e senza orari e senza lingue estere.
Evidenza catastrofica e lampante che Est e comunismo significano soprattutto edifici vecchi e cadenti, negozi polverosi e burocratici, e soprattutto la desolazione dell’assenza d’ogni speranza. Non solo abiti e facce e interni sconfortanti e subumani: anche dappertutto quel davanzale storto e infisso rotto e gradino mancante che significa solo abbandono e resa, tanti anni dopo la bomba nel cortile. La mancanza di energie anche per raddrizzare il calendario storto da una vita davanti al naso.
Si capisce cosa succede: una specie d’antico totocalcio cinese, con la differenza che per vincere basta far tre, chi perde però finisce male, e il monte-premi è indivisibile, trattandosi della figlia dell’Imperatore. La ricchezza dell’apparato è inverosimile: colpi di xilofono, esercizi di acqusantiere, ed enigmi in astucci da torrone. Ma le modalità del quiz sono le stesse di «Lascia o raddoppia»: soltanto, al posto del notaio siedono i tre clowns, facendo delle smorfiacce invereconde; e invece di urlare «la risposta è esatta» si suona e canta Inno Olimpico tutte le volte.
Quando finalmente appare Turandot, ecco una cantante né esile né debole. Soprattutto, non giovane. Con tendenza a toni furbetti, o furbacchiotti. Subito si ha l’impressione che per questa esagerata difficoltà degli enigmi (ma non hanno un nome, più o meno illustre, quelli lì?) lei abbia dovuto star lì ad aspettare anni e anni prima di trovare un pretendente abbastanza fortunato. E anonimo. Perdendo anche un po’ di voce, a furia di cantar da sola.
Si capisce perciò lo smarrimento e la confusione di questo povero principe: dopo tutta la fatica e i rischi, si trova davanti una signora anziana che potrebbe essere la sua mamma. E per qualche «giuramento atroce» o «fosco patto», si vede costretto all’Amore.