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 2016  settembre 21 Mercoledì calendario

L’imbarazzo delle banche centrali


È arrivato il momento dell’incertezza per le banche centrali. Per otto anni, le autorità monetarie delle maggiori economie avanzate hanno proceduto decise su un percorso di politiche espansive e non convenzionali per sostenere la ripresa: i tassi d’interesse sono stati tagliati sotto zero e i banchieri centrali hanno acquistato migliaia di miliardi di obbligazioni governative e aziendali. Oggi, però, la strada sembra assai meno segnata. La Banca Centrale Europea ha davanti i primi segnali di un rallentamento dell’economia, ma è per ora troppo divisa per espandere il suo programma di Quantitative easing. La Banca del Giappone e soprattutto il suo governatore Haruhiko Kuroda, saprebbero anche cosa fare, ovvero continuare con le politiche espansive avviate nel 2013. Ma l’efficacia di queste misure è stata messa in dubbio dagli effetti assai limitati avuti sul tasso d’inflazione. La Federal Reserve non ha idea di cosa fare, se proseguire sul cammino di rialzo dei tassi avviato dieci mesi fa, oppure restare ferma vista la fragilità della ripresa. La Banca d’Inghilterra è invece convinta di quello che andrebbe fatto, ovvero aumentare lo stimolo monetario avviato dopo il referendum su Brexit. Ma, per ora, i consumi e il mercato del lavoro vanno molto meglio di quanto previsto dal governatore Mark Carney.
I banchieri centrali hanno davanti un doppio problema. Il primo, comune ad altre epoche, riguarda l’incertezza sullo scenario che hanno davanti. La Bce ha preferito evitare di prendere nuove misure espansive a settembre poiché le sue previsioni erano praticamente invariate rispetto a giugno. Tra tre mesi, quando lo staff presenterà il nuovo quadro macroeconomico, i segnali di un rallentamento che sembra stare coinvolgendo anche la Germania, dovrebbero essere più evidenti. Mario Draghi e colleghi potrebbero dunque agire – ammesso che ci sia sufficiente consenso per farlo. Dopo Brexit, Carney si è trovato in un problema ancora maggiore. Come ha ricordato in un convegno all’Università Luiss di Roma, Martin Weale, che ha da poco lasciato la Banca d’Inghilterra, la decisione di tagliare i tassi e incrementare il Quantitative easing di agosto è stata basata principalmente su questionari diffusi tra le aziende invece di dati reali. La nebbia sullo stato dell’economia britannica era dunque molto fitta.
A questo limite, se ne aggiunge un altro: l’evidenza empirica sul successo delle misure non convenzionali è difficile da interpretare. Gli economisti sono abbastanza certi che se le autorità monetarie non fossero scese in campo così massicciamente, la crisi del 2008 sarebbe stata più lunga e più profonda. La decisione della Bce di alzare prematuramente i tassi nel 2011, contribuendo al rallentamento dell’economia europea, è la prova che politiche monetarie restrittive sarebbero state dannose. Ma l’impatto su crescita e inflazione è molto difficile da stimare. Molti studi poi provengono dalle stesse autorità monetarie, creando un ovvio conflitto d’interessi.
L’imbarazzo delle banche centrali, comunque, è soprattutto l’imbarazzo dei governi. Nell’eurozona, infatti, è mancata una politica fiscale intelligente che accompagnasse all’austerità dei Paesi con debiti alti, una spinta ai consumi e agli investimenti in Stati dalle finanze pubbliche più solide. Ma altrettanto grave è stata la lentezza nel procedere sul fronte delle riforme strutturali, aprendo il mercato del lavoro e dei prodotti. Sono decenni che Tokyo spinge sulla leva degli investimenti pubblici. Se questi bastassero, i tassi di crescita giapponesi dovrebbero ben più robusti di quelli assai scarni di oggi.