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 2016  settembre 21 Mercoledì calendario

Ultime sui due italiani rapiti in Libia

Fiorenza Sarzanini per il Corriere della Sera
La posizione delle autorità libiche è chiara: «I rapitori degli italiani sono noti alle autorità locali e in passato hanno effettuato imboscate contro auto e rapine». A parlare con l’ Associated Press è il portavoce della municipalità di Ghat, Hassan Osman Eissa. La sua dichiarazione avvalora la pista che accredita la matrice della criminalità comune. E poco dopo sulla sorte di Bruno Cacace e Danilo Calonego, i due dipendenti della Con.I.Cos. sequestrati lunedì mattina mentre viaggiavano a bordo di un auto con un collega italocanadese e l’autista, interviene il vicepresidente del Consiglio presidenziale del governo di unità libico, Moussa el Kouni per assicurare l’impegno affinché vengano «liberati al più presto». Lapidario è il commento del presidente del Consiglio Matteo Renzi che da New York, dove partecipa all’assemblea nazionale dell’Onu afferma: «Ora su queste cose lavoro, silenzio e prudenza».
«Il Consiglio presidenziale – scrive in un tweet el Kouni – intensifica gli sforzi politici con i servizi di sicurezza e gli abitanti del sud di Ghat e le regioni di confine per trovare i sequestrati. La Libia ha un gran bisogno di pace in questa fase cruciale della storia. Il vero nemico dei libici è uno solo: Daesh (Isis, ndr ) e bisogna unire gli sforzi per annientarlo». Un ruolo di rilievo nella mediazione sembra averlo il sindaco di Ghat, Gomani Mohamad Saleh, che attacca «il governo e le sue istituzioni perché non danno la giusta importanza a questa vicenda» e poi ribadisce come «tutto fa pensare che non si tratti di un atto con matrice terroristica, ma che ad aver effettuato il rapimento siano banditi locali» evidenziando che in quella zona «non sono attivi gruppi islamisti legati all’Isis o ad altre organizzazioni estremiste».
In Italia queste notizie vengono accolte con cautela, soprattutto dopo quanto accaduto ai quattro dipendenti della Bonatti che furono rapiti, due uccisi dai rapitori. Per il 4 ottobre il Copasir, il comitato di controllo parlamentare sui servizi segreti, ha convocato il direttore dell’Aise Alberto Manenti proprio per avere un aggiornamento sulla vicenda. L’auspicio è che per quella data tutto si sia risolto.
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Fabrizio Caccia per il Corriere della Sera
«Che ci vai a fare, ancora una volta, così lontano, papà? La Libia è maledettamente pericolosa...», lo aveva implorato Pamela, la sua secondogenita, appena due mesi fa. Ma Danilo Calonego, 68 anni, meccanico provetto ormai in pensione, malgrado avesse già conosciuto l’inferno nel 2014, sfuggendo miracolosamente ai predoni del deserto con una fuga precipitosa in Algeria, non le ha dato ascolto. Perché Danilo ha «la malattia dell’Africa», proprio una «brutta malattia» come ammise lui stesso su Facebook, una volta tornato a casa sano e salvo. Un amore così forte da spingerlo a convertirsi all’Islam, dopo aver conosciuto la sua seconda moglie, Malika, in Marocco, più di 20 anni fa. E così, a luglio scorso, è ripartito per offrire la sua esperienza di capo officina alla ditta Con.I.Cos. di Mondovì, impegnata in un cantiere all’aeroporto di Ghat. «Ci siamo sentiti domenica via Skype – racconta il genero, Settimo Centelleghe, il marito di Pamela —. Ci ha detto che stava bene e che sarebbe tornato il 27 settembre senza problemi».
Ma l’amore per la Libia l’ha tradito: «Non ci sono aurore», in quel deserto, «né esistono altrove colori che eguaglino il finto pastello delle distese incolte...». Danilo, a ogni ritorno, scriveva le sue sensazioni e il risultato era un crescendo di nostalgia. Nostalgia per la «purezza dell’aria dopo la pioggia» e per quell’atmosfera senz’altro unica. Aveva finito di scrivere un libro, ormai c’era solo da mandarlo in stampa. «Non c’è nessuna terra che racchiuda in sé cosi vicina, cosi pronta all’agguato: LA MORTE!!!», confessava il meccanico di Sedico (Belluno) in un post da brividi del gennaio 2015, perfettamente conscio dei rischi.
Perché Danilo conosce bene le insidie della Libia del dopo Gheddafi: mostra su Facebook le foto delle case bucherellate dai proiettili e i silos petroliferi di Brega intorno a cui si combatte ogni giorno. La vita da pensionato però non fa per lui: «Sinceramente certe volte si stava meglio al lavoro», soffre quando sta a casa. Ecco perché ha subito detto sì, quando la Con.I.Cos. a luglio l’ha chiamato.
«Io adesso come tutti sto sperando che torni – dice la sua prima moglie, la signora Ornella De Mari, la mamma di Pamela e della primogenita Simona —. Ma quando Danilo tornerà, penso proprio che gli darò uno scappellotto. Perché pure io tanti anni fa non volevo che andasse in Libia, ma lui all’inizio ci andava per bisogno, perché doveva mantenere la nostra famiglia. Ma poi è diventata una grande passione».
Passione per la Libia, l’Algeria, il Marocco: Malika, la sua seconda moglie, appena saputo del rapimento, ieri ha lasciato in tutta fretta la loro casa di Marrakesh per venire in Italia, dove vive e studia moda – a Milano – la terzogenita del signor Danilo, Wisal, che a dicembre compirà 20 anni. La figlia più grande, Simona, 44 anni, l’altra sera ha appreso la notizia dal telegiornale, indignandosi molto: «La Farnesina non ci ha dato alcuna comunicazione ufficiale». Ma poi la rabbia ha lasciato il posto alla speranza.
Il padre, comunque, ha tanta esperienza: una vita di viaggi e lavoro anche in Laos, Thailandia, Capo Verde. Eppure, «malgrado i miei 35 anni all’estero, mi sento ancora un montanaro», scrive di sé sul profilo, postando sullo sfondo le cime innevate del Marocco e dell’Algeria che lo fanno sentire sempre vicino al Peron, il monte della sua infanzia, trascorsa mangiando «polenta e formaggio a mezzogiorno e immancabilmente la minestra di fagioli alla sera». Quella che gli preparava sua madre Gilda, 95 anni, tenuta ora all’oscuro di tutto.