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 2016  settembre 21 Mercoledì calendario

L’ultimo discorso di Obama alle Nazioni Unite

Mi rivolgo a questa assemblea da presidente degli Stati Uniti per l’ultima volta.
Citerò alcuni dei progressi fatti negli ultimi otto anni. Eravamo negli abissi della più grande crisi finanziaria dei nostri tempi, ma abbiamo reagito in modo coordinato per far ripartire l’economia globale. Abbiamo strappato ai terroristi le loro roccaforti, risolto la questione del nucleare iraniano per vie diplomatiche, aperto le relazioni con Cuba.
Nonostante ciò, oggi quelle stesse forze dell’integrazione globale che ci hanno resi così dipendenti gli uni dagli altri, ci espongono anche a profonde lacerazioni dell’ordine internazionale. I rifugiati varcano in massa le frontiere per scappare da un conflitto brutale. Perturbazioni finanziarie continuano a pesare su intere comunità. In ampie zone del Medio Oriente la sicurezza e l’ordine vengono meno. Troppi governi tuttora reprimono con la violenza il dissenso. Reti terroristiche mettono in pericolo società aperte e alimentano la rabbia nei confronti di immigrati e musulmani innocenti. Questo paradosso caratterizza il mondo di oggi.
Un quarto di secolo dopo la fine della guerra fredda, il mondo è di gran lunga meno violento e più prospero che mai, eppure le nostre società sono piene di incertezza, disagi e ostilità. Io oggi vorrei invitare noi tutti a fare un passo avanti, invece di regredire. Per riuscirci dobbiamo ammettere che la strada da noi imboccata, quella dell’integrazione globale, richiede ora un cambiamento di rotta. Chi sbandiera i vantaggi della globalizzazione troppo spesso non ha voluto vedere le ineguaglianze tra le nazioni e al loro interno.
Mentre i problemi reali venivano negati, visioni alternative prendevano piede, in Paesi ricchi come in quelli più poveri: il fondamentalismo religioso; le politiche etniche, tribali o settarie; un nazionalismo aggressivo, un becero populismo. Non possiamo ignorare queste idee, perché riflettono insoddisfazioni. Non credo che sul lungo periodo possano garantire sicurezza o benessere, e credo che falliscano perché non riconoscono la nostra comune umanità. Una nazione che si circonda interamente di muri non farebbe che imprigionare se stessa. La risposta quindi non può essere un semplice rifiuto dell’integrazione globale, ma anzi far sì che i vantaggi dell’integrazione siano il più condivisi possibile.
Credo che la strada della democrazia continui a essere la migliore: chi crede in ciò, deve farsi sentire a gran voce. La Storia e i fatti sono dalla nostra parte. Ciò mi porta a parlare del terzo obbligo che ci spetta: respingere ogni forma di fondamentalismo, di razzismo, o di ideologia legata a una superiorità etnica che rende le nostre identità tradizionali inconciliabili con la modernità. Al contrario: dobbiamo abbracciare la tolleranza che nasce dal rispetto per tutti gli esseri umani.
Che l’integrazione globale abbia portato a uno scontro di culture è lapalissiano. In un mondo che si è lasciato alle spalle l’era degli imperi, assistiamo ai tentativi della Russia di recuperare la gloria perduta attraverso la forza. In Europa e negli Usa vediamo la gente scontrarsi su immigrazione e cambiamenti demografici, come se la presenza di chi sembra diverso potesse corrompere il carattere dei rispettivi Paesi. Non credo che il progresso sia possibile, se il nostro desiderio di tutelare le identità dà il via alla disumanità e agli istinti di dominare su altri gruppi. Il mondo è troppo piccolo e noi siamo troppo connessi perché si possa tornare a mentalità di così vecchio stampo. In troppe zone del Medio Oriente vediamo accadere proprio questo. Lì buona parte del declino in atto è alimentato dal fatto che i leader, invece di fondare la propria legittimità nelle politiche o nei programmi di governo, hanno fatto ricorso alla persecuzione dell’opposizione politica o alla demonizzazione delle altre correnti religiose, circoscrivendo lo spazio pubblico alla moschea, laddove in troppi luoghi venivano tollerate perversioni in nome di una grande fede.
Tutte queste forze hanno preso piede e si sono rafforzate nel corso degli anni, ora entrano in azione rinfocolando sia la tragica guerra in Siria sia la scriteriata e medievale minaccia dell’Isis. Perché si arrivi a vincere l’ultima battaglia militare, è indispensabile per noi portare avanti con determinazione il duro sforzo diplomatico che ambisce a fermare la violenza,a soccorrere chi ne ha bisogno, a sostenere coloro che aspirano a un accordo politico. Nei conflitti dell’intera regione dovremo insistere affinché tutte le parti coinvolte riconoscano la nostra comune umanità e le nazioni pongano fine a guerre per procura che alimentano sempre più il caos. E ciò mi porta infine alla quarta, imprescindibile questione che credo dobbiamo affrontare insieme: sostenere l’impegno alla cooperazione internazionale, quello fondato sui diritti e sulle responsabilità delle nazioni.
Credo che l’America fino a questo momento sia stata una superpotenza rara nella storia del genere umano, in quanto è stata capace di pensare al di là dei suoi interessi immediati. Ma so anche che non possiamo riuscire in simili intenti da soli. Se la Russia continuerà a interferire negli affari dei suoi vicini, potrà forse essere popolare in patria, ma col passare del tempo perderà autorevolezza. Siamo tutti portatori di interessi e siamo tutti coinvolti, in questo sistema internazionale, perciò sta a noi tutti saper investire nel successo delle istituzioni alle quali apparteniamo.
Mentre era in prigione, da giovane, Martin Luther King Jr scrisse che “il progresso umano non corre mai sulle ruote dell’inevitabile, ma passa attraverso gli sforzi senza tregua di tutti gli uomini che vogliono collaborare con Dio”. Questo è ciò in cui credo anch’io: che tutti noi possiamo diventare collaboratori di Dio. E le nostre leadership, e i nostri governi, e queste stesse Nazioni Unite riunite qui oggi, dovrebbero rispecchiare questa irriducibile verità.