La Gazzetta dello Sport , 20 settembre 2016
I primi 60 anni di Paolo Rossi: «Devo tutto a Bearzot»
Una vita da film e non è la solita battuta, perché presto gireranno un film su Paolo Rossi e i suoi meravigliosi sessant’anni che festeggerà venerdì, nel verde del Chianti, con la moglie Federica e le due bimbe, Maria Vittoria di 7 anni e Sofia Elena di 5. «Se guardo il mio fisico, scopro tutti gli acciacchi della carriera e infatti, dopo cinque operazioni, posso soltanto dare il calcio d’inizio alle partite in giro per il mondo con i miei vecchi compagni. Ma se mi dicono che ho 60 anni, rispondo che non è vero. Ne ho tre volte venti, come le tre donne con cui vivo. Dopo il primo matrimonio e il primo figlio Alessandro, che adesso ha 33 anni, queste bimbe mi regalano sensazioni indescrivibili, quando le accompagno a scuola o quando le vado a prendere. Sono loro il segreto del mio spirito e della mia felicità».
Eppure lei sta poco a casa, perché è impegnato ovunque…
«Faccio 50 mila km all’anno in macchina perché, a parte il mio agriturismo vicino a casa, seguo le accademie calcio Paolo Rossi Perugia, le mostre sulla mia carriera in giro in tutta Italia e presto a Montecarlo e Bruxelles. Inoltre da 10 anni vado in tv a Milano per commentare la Champions e ora mi hanno proposto un progetto per fare un film sulla mia vita, per il cinema o una fiction tv tipo quella su Bartali».
Nel film si partirà dalla famiglia ovviamente…
«Dalla Nsu Prinz verde, la più brutta auto che abbia mai visto ma della quale mio papà era orgogliosissimo, quando veniva a vedermi giocare le prime partite. Mia mamma, che ha 90 anni, se la ricorda ancora».
Il suo primo idolo è stato?
«Hamrin, quando giocava nella Fiorentina. Sognavo di diventare come lui, perché ero un’aletta veloce, con lo stesso numero 7. Ero tifoso della Fiorentina e ricordo a memoria la squadra che andavo a vedere nel 1969 quando vinse l’ultimo scudetto: Superchi, Rogora, Mancin, Esposito, Ferrante, Brizi, Rizzo, Merlo, Maraschi, De Sisti, Amarildo o Chiarugi».
Però è diventato Paolo Rossi lontano da Firenze
«Ero nei ragazzi della Juve, ma siccome in prima squadra non giocavo mai chiesi a Boniperti di trovarmi un’altra sistemazione. Mi propose il Vicenza in B e fu la mia fortuna. G.B. Fabbri è stato l’allenatore della svolta, perché mi ha trasformato da ala in centravanti. Promosso in A, poi capocannoniere e la convocazione in azzurro per il Mondiale 78».
Dove lei diventa Pablito…
«Il trionfo è arrivato nel 1982, ma io sono molto legato a quel Mondiale perché è stato la mia prima ribalta internazionale. Giorgio Lago, giornalista del “Gazzettino” di Venezia, mi soprannominò Pablito e da quei giorni in Argentina sono diventato Pablito per tutti. Le mie figlie mi chiamano Paolo, ma a me piace che gli altri nel mondo del calcio mi chiamino Pablito».
Nel film si parlerà anche della squalifica per il primo scandalo scommesse...
«Non l’ho mai digerita, è una ferita sempre aperta. Mi hanno squalificato per due anni, anche se io non avevo parlato con nessuno, non avevo fatto niente. Eppure di Perugia conservo bei ricordi, a cominciare dall’amicizia con Egidio Calloni, grande centravanti ingiustamente sottovalutato, un ragazzo d’oro che era già sposato e mi invitava spesso a cena a casa sua».
Finita la squalifica, è incominciato il trionfo mondiale in Spagna.
«Nelle prime partite capivo di non star bene. I compagni mi prendevano in giro, ma sentivo affetto nelle battute di Causio, Cabrini, Tardelli. Non finirò mai di ringraziare Bearzot, l’unico che ha sempre creduto in me. Io gli devo tutto. Se non ci fosse stato lui, adesso non sarei qui e nessuno mi cercherebbe, altro che film».
Descriva Bearzot a chi non l’ha conosciuto.
«Uno come lui nasce ogni cent’anni: era un uomo vero, diretto, sincero, coerente, magari duro e testardo, ma proprio per questo si faceva amare. E poi anche un grande tecnico e un grande psicologo. Pensi che dopo la mia tripletta contro il Brasile, si sedette vicino a me e mi disse: “Bene, Paolo, ma adesso pensa alla prossima partita”. Mi parlò così perché voleva mantenere alta la tensione».
Dopo la felicità del Mondiale c’è stato il dramma dell’Hesyel.
«Faccio ancora fatica a parlarne. Non dimenticherò mai quelle lenzuola che coprivano i corpi fuori dallo stadio».
Chissà quante volte le hanno chiesto chi è il nuovo Paolo Rossi…
«Ne ho visto soltanto uno che mi assomiglia, anche perché si chiama come me: Pepito Rossi aveva e ha grandi qualità, mi rivedo un po’ in lui, ma non ha avuto la mia fortuna e mi dispiace perché è un bravissimo ragazzo».
Per chi tifa oggi?
«Sono legato al Vicenza e vorrei rivederlo in Serie A, ma ho ancora un debole per la Juve, perché è stata la prima squadra che mi ha preso e poi ripreso. Ricordo con nostalgia le telefonate di Agnelli alle sette del mattino».
La Juventus riuscirà finalmente a vincere la Champions League?
«Ha tutto per farcela, ma storicamente la Champions è stregata per la Juve. Deve imparare a gestire la pressione, come ha fatto il Real Madrid che inseguiva la Decima e non la vinceva mai, ma poi quel giorno è arrivato».
La sconfitta contro l’Inter è un campanello d’allarme?
«È la dimostrazione che nel calcio non c’è nulla di scontato. Anche se la Juventus è ancora in rodaggio, mi chiedo come si possa tenere fuori Higuain. È fortissimo, nessuno lo discute, non vorrei però che avesse rotto qualche equilibrio, anche se gioca con un fenomeno come Dybala che mi sembra la versione moderna di Sivori».
Ripensando a Higuain che ha quasi trent’anni, non ha il rimpianto di avere chiuso così presto?
«Alla sua età andai al Mondiale in Messico come turista perché Bearzot, con la solita schiettezza, mi disse che non avrei mai giocato e io accettai per riconoscenza. Purtroppo le mie ginocchia non mi reggevano più e subito dopo passai al Verona per stare vicino a casa. Eppure, anche se in quel Mondiale non giocai mai, mi hanno invitato in Messico per farmi entrare in novembre nella loro Hall of Fame, con Ronaldo, Zico e Rummenigge. Ho risposto che mi presenterò con mia moglie e le mie bimbe, perché sono loro che mi fanno sentire giovane e felice, a vent’anni moltiplicati per tre».