Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  settembre 20 Martedì calendario

Il ritorno in Italia del Messia, il più celebre violino di Stradivari

Il suo violino Lady Blunt, dal nome di Anne una delle prime proprietarie, nato nel 1721, è stato venduto a un’asta per 16 milioni di dollari; ma qualche anno fa, «appena» tre e mezzo sono invece costati il Molitor del 1697, forse già di Napoleone e con il cognome di un suo generale, e lo Hammer del 1707, come si chiamava chi lo possedeva nell’Ottocento. Il migliaio di violini che Antonio Stradivari (1644-1737; ma non è certa la data di nascita) ha costruito (così quattro dei suoi undici figli, talora firmandoli anche con il suo nome) non sono degli strumenti: sono delle opere d’arte. E uno dei più famosi di tutti, il Messia del 1716, il suo «periodo d’oro», non può suonarlo più nessuno: era rimasto nella bottega alla morte del liutaio più famoso di ogni epoca, nel 1890 è stato comprato per duemila sterline dai collezionisti inglesi Hill, che nel 1939 l’hanno donato all’Ashmolean museum di Oxford, sotto il vincolo che fosse conservato e non suonato. Da allora, è rimasto muto. Però, esattamente 300 anni dopo essere stato costruito, è tornato a Cremona, dove è stato fabbricato: è la «vedette» di una mostra aperta fino al 18 dicembre, al Museo del violino.
IL MITO
A inizio del Novecento, qualcuno aveva potuto suonarlo. Ad esempio, Joseph Joachim, cui Beethoven ha dedicato alcune sue musiche, l’interprete preferito da Johannes Brahms; che dopo, dice: «Un suono unico, che torna sempre alla memoria, con la sua contaminazione di dolcezza e grandeur che mi impressionò così tanto. È giustamente celebrato». Oggi, se qualcuno volesse provarlo, non potrebbe nemmeno più: ormai, è troppo fragile; non reggerebbe ai colpi dell’archetto. A Cremona, oltre ad esporlo accanto ai capolavori incredibili che il museo conserva, lo sottoporranno pure a degli esami.
Il suo passato è stato quanto mai travagliato. I figli del liutaio lo cedono tra gli ultimi. Il primo proprietario è un giovane piemontese, Alessandro Cozio conte di Salabue: metterà insieme la maggior collezione di violini italiani, Amati ed altri, con i dieci Stradivari rimasti in bottega. Da lì, altri passaggi di mano. A un successivo proprietario (Luigi Tarisio, di Vercelli) che non voleva venderlo, il violinista più celebre del tempo in Francia, Jean-Delphin Allard, dice: «Insomma, questo strumento è come il Messia; lo si aspetta sempre e non compare mai».
E da lì, il nome. Un altro che riuscì a suonarvi seppur poche note, è stato Albert Einstein: ha fatto musica anche con Maria José di Savoia, quando ancora era ragazza, a Bruxelles.
Ormai, quelli degli strumenti di Stradivari, ma anche degli altri immensi liutisti italiani del tempo come gli Amati o i Guarneri del Gesù, i Gasparo da Salò, i Guadagnini oppure i Montagnana, sono quasi tutti dei nomi assai strani. Spesso derivano dai mitici interpreti che li hanno posseduti o solo suonati. A Cremona è il Cremonese del 1715, ex Joachim: era proprio suo, ne possedeva cinque. Invece, l’Emiliani (già di Cesare, bolognese dell’Ottocento), per lungo tempo è stato della violinista Anne Sophie-Mutter: la causa di un lungo dissenso tra Herbert von Karajan ed i Berliner Philarmoniker, che non la volevano in orchestra quand’era ancora giovanissima. Per comperare uno strumento del genere, la coreana Kyung-Wha Chung ha convinto la madre a vendersi casa. Salvatore Accardo sceglie tra lo Hart del 1727, già del famoso Zino Francescatti, un Guarneri (1734), un altro Stradivari: l’Uccello di fuoco del 1718, colorato in arancio su fondo d’oro, già di Antoine de Saint-Exupéry, l’autore del Piccolo principe.
BANCHE
Spesso, sono strumenti tanto cari che appartengono a banche o fondazioni, li danno in prestito a celebri nomi: Uto Ughi impugna lo Stradivari Kreutzer del 1701, un Guarneri, ed un altro Stradivari, di proprietà di una banca. La vittoria a un concorso in Canada ha permesso all’ucraino Edvin Marton di ottenere, a vita, la concessione d’uno Stradivari del 1697, già suonato anche da Niccolò Paganini, che è proprietà di una banca svizzera. Sir Yehudi Menuhin imbracciava il Soildel 1714, che ora suona Itzhak Perlman; spiegava perché i maggiori violinisti sono ebrei, in questo modo: «Mai visto qualcuno fuggire con un pianoforte sulle spalle?»; non a caso un altro coevo, e sempre di Stradivari, si chiama Juif errant.
Quello forse più prezioso, Messia a parte, è una viola, sempre di Stradivari: la Macdonald, una delle dieci sue, già di un famoso componente del Quartetto Amadeus. Messa all’asta da Sotheby’s due anni fa, base 30 milioni di euro che nessuno ha però sborsato. Godiamoci allora questo Messia, prima che finisca, di nuovo, dentro la sua teca antiproiettile: per celebrarne il pur provvisorio ritorno a Cremona, gli hanno perfino organizzato un concerto di gala, nello splendido auditorium che ha vinto il Compasso d’oro, del Quartetto Stradivari. E che altro, se no?