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 2016  settembre 20 Martedì calendario

«Weidmann chii?». Renzi va alla guerra

Il «Weidmann chii?» sibilato alla cronista che chiede conto dell’intervista parla da solo. Il codice diplomatico di Matteo Renzi risponde ad alcune regole precise: se pensa sia l’ora di difendersi da un attacco, attacca. Se Pier Carlo Padoan è l’imperturbabilità fatta persona, il premier non ama incassare. Poco importa si tratti di un oppositore interno (su YouTube circolano ancora molte versioni di quel «Fassina chiii?») o dell’austero capo della Bundesbank. Appena giunto a New York per l’assemblea generale dell’Onu, Renzi preferirebbe parlar d’altro. Quando è l’ora di commentare i giudizi di Jens Weidmann sui conti pubblici e sul debito italiano apparsi su La Stampa è tentato di ignorarli. Ma è solo un attimo. Perché vero è che Weidmann non riveste ruoli politici, e che la Banca centrale di Francoforte è lontana abbastanza dalla Cancelleria di Berlino. E però quel tipo di giudizi non lascia indifferenti certi ambienti nordici. La trattativa con Bruxelles sulla prossima manovra ha preso una brutta piega, dunque meglio parlar chiaro. L’Italia ha già avuto abbastanza flessibilità? Il debito non scende? Occorre andare avanti con le riforme? «Il governatore ha già un compito ingrato. A lui va tutta la mia solidarietà perché deve affrontare la grande questione delle banche tedesche: facciamo il tifo perché ci riesca». Senza farsi tradire dal sorriso, Renzi insiste sul filo dell’ironia: «Gli diamo un affettuoso abbraccio di buon lavoro» visto che «per qualche decina di miliardi di crediti deteriorati delle banche italiane ci sono centinaia di miliardi di derivati in quelle tedesche».
Il redde rationem dell’Unione europea è arrivato. Da una parte le ragioni del rigore di chi ha la forza per attuarlo, dall’altra quelle di chi usa la spesa nel tentativo di rianimare l’economia malata. Qui poco importa stabilire quanto Renzi abbia usato bene la flessibilità di cui ha goduto finora. Fatto è che dopo l’illusione di un riavvicinamento, Italia e Germania si ritrovano su due sponde che si allontanano. A bene vedere, nell’intervista di Weidmann non mancano gli apprezzamenti per il «giusto approccio» del Jobs Act o la nuova legge elettorale. O ancora il pertugio aperto a favore di un accordo europeo per ristrutturare le banche, anche attraverso l’uso del Fondo salva-Stati. Il dialogo si complica sempre sullo stesso pregiudizio reciproco: come conciliare rigore e crescita.
Vuoi per il carattere del ministro, vuoi per la delicatezza del ruolo a Bruxelles, Padoan non sparge benzina sul fuoco della polemica alimentata da Weidmann. Però sostenere che gli siano piaciute le parole dell’ex pupillo di Angela Merkel sarebbe un eufemismo. «Figuriamoci se non siamo d’accordo con un percorso di riduzione del deficit e del debito», dicono da via XX settembre. Ma l’evidenza dice che «politiche concentrate sul solo contenimento della spesa hanno sortito effetti opposti a quelli dichiarati: hanno provocato il crollo del Pil e l’aumento del debito». Al Tesoro ricordano i risultati di uno studio pubblicato sul sito a proposito degli sforzi fatti dall’Italia negli ultimi vent’anni. Ebbene, secondo le stime dei tecnici di Padoan fra il 2009 e il 2015 l’Italia avrebbe mantenuto il più alto saldo primario (+1,1 per cento) della zona euro. Il saldo primario altro non è che la spesa al netto di ciò che occorre pagare per onorare gli interessi sul debito: negli stessi anni la Spagna dei miracoli ha aumentato il disavanzo del 5,6 per cento, la Francia del 2,7. In questa fase – dicono al Tesoro – imporre «un rigido manuale delle regole, benché necessario per conciliare le esigenze di 28 Paesi e sopperire al deficit di fiducia reciproco, non è adatto a governare l’economia». Come dimostra «l’uscita degli Stati Uniti dalla crisi», c’è bisogno di «risposte elastiche e pragmatiche».
Il problema è che dopo due anni di concessioni sul filo delle regole, le munizioni in mano alla Commissione per concedere all’Italia quell’elasticità non ci sono più. Non è un caso se ieri Renzi si sia appellato alla ragion politica del suo presidente, Jean Claude Juncker: «Auspico che le speranze del suo ultimo discorso al Parlamento europeo prevalgano sulle deludenti conclusioni del vertice di Bratislava». In ogni caso l’Italia «sa come fare da sola». Più che una promessa, una minaccia che potrebbe finire per danneggiare tutti.