la Repubblica, 20 settembre 2016
Benoit Lengelé, il chirurgo che trapianta volti e colleziona ritratti
Dopo l’intervento, Isabelle Dinoire è riuscita a sorridere per undici anni. Sorrideva con quello che era diventato il suo nuovo volto, dopo che un morso di cane lo aveva devastato al punto da segregarla in ospedale con una mascherina a coprire naso, labbra e mento, le parti mancanti. Perché – spiega Benoit Lengelé, il chirurgo belga che condusse quel primo trapianto di faccia nel 2005 – il viso può cambiare, ma le emozioni e i sentimenti ci appartengono. E modellano i tratti del nostro volto, anche se questo proviene, in parte, da un donatore. Isabelle lo aveva capito, e dava espressione ai suoi lineamenti prima che, il 22 aprile scorso, un tumore al polmone la portasse via. L’intervento è stato eseguito solo altre 35 volte in tutto il mondo. E, commenta il chirurgo: «i pazienti come Isabelle hanno ritrovato non soltanto un aspetto umano, ma anche la capacità di parlare, di mangiare, di bere, di sorridere appunto». Persone che dopo un incidente o una malattia avevano completamente perso la loro vita sociale e professionale, oggi dicono che i benefici del trapianto sono inestimabili, e compensano largamente i rischi che derivano dal trattamento farmacologico.
Nato a Waterloo, nei pressi del campo di battaglia che vide la disfatta di Napoleone, Lengelé ha passato una vita a osservare i volti in tutti i dettagli. «Da piccolo – ricorda – mi piaceva disegnare. Facevo ritratti di tutti coloro che mi stavano vicini: familiari, amici, professori. Oggi colleziono arte figurativa del XVII e XVIII secolo: ritratti, ovviamente. E sono certo che questa passione mi ha aiutato a saper cogliere i tratti distintivi nei volti di ciascuno, a riconoscere non soltanto le diverse espressioni dei sentimenti, ma anche i muscoli, i nervi, i vasi sanguigni».
Così, dopo la laurea in medicina all’Università Cattolica di Lovanio, comincia le sue ricerche sull’anatomia complessa della faccia. «Lavorando su embrioni di pollo, sono riuscito a dimostrare che lo sviluppo della faccia è segmentale: un volto è costituito da diversi segmenti, che sono in stretta relazione con il cervello: per questo l’obiettivo dei trapianti di faccia non è solo quello di reimpiantare pelle e tessuti molli su una parte mancante del viso, ma di ripristinare la relazione con il cervello, che in sostanza dà vita al volto grazie alle emozioni».
Le implicazioni etiche di un trapianto di faccia sono profonde. Come si fa a vivere con i lineamenti di un cadavere? In che modo il viso di un altro interferisce con la propria identità? «Dopo il trapianto, la faccia non sarà mai identica a quella che si aveva prima, ma nemmeno a quella del donatore. Sarà un volto nuovo, un mix dei tratti di entrambi», spiega il chirurgo. Ma il cervello, l’organo che gestisce le espressioni a seconda delle emozioni che si provano, è sempre quello del ricevente. In questo senso – dice Lengelé – il volto è quello del trapiantato, e non quello del donatore. E lo dimostrano gli esperimenti con la risonanza magnetica funzionale: il trauma provocato dalla perdita della faccia è visibile sulla corteccia, ma dopo il trapianto, quando si ripristinano le connessioni dei neuroni motori del nuovo volto e il paziente è nuovamente in grado di sorridere, l’area riprende la sua attività. Una prova oggettiva che la nuova faccia è stata integrata nella corteccia del ricevente. E comunque resta la parte più simbolica di un essere umano. «Come diceva il filosofo francese Emmanuel Lèvinas – conclude Lengelé – il volto è dell’altro, non ci appartiene. Noi viviamo nello sguardo altrui. A meno che, come nei ritratti di Modigliani, gli occhi grigi e vuoti non indichino lo sguardo interiore, alla ricerca della propria anima».