la Repubblica, 20 settembre 2016
Perché gli industriali e gli operai italiani non hanno lasciato la Libia
Ci risiamo. Una strada polverosa tra i monti, un’auto che finge di essere in panne e invece è una trappola. «Lasciate la Libia», aveva consigliato il governo agli italiani a febbraio dello scorso anno, quando l’avanzata dei tagliagole dell’Isis e la guerra tra bande, interessi e fazioni sconvolsero definitivamente il dopo Gheddafi. Tutti fuori, troppo pericoloso restare. Persino l’ambasciata di Tripoli, ormai, è chiusa. E invece rieccoci: riecco l’ansia per un rapimento e riecco l’incubo Bonatti, il sequestro che portò alla morte di Salvatore Failla e Fausto Piano.
No, non se ne sono andati gli industriali e gli operai italiani in Libia. Mentre il governo gioca una partita delicatissima cercando di aiutare il governo Serraj a riprendere il controllo del Paese difendendo contemporaneamente gli enormi interessi energetici italiani, piccole e medie aziende con contratti firmati e bilanci da sostenere se ne guardano bene dal gettare la spugna.
È la forza e la debolezza dell’imprenditoria italiana. Guascona e coraggiosa nel lanciarsi all’avventura, caotica nel modo in cui lo fa: «I rapiti non erano neanche registrati all’Aire...», sibilano gli uomini dei servizi allargando le braccia. Come dire, nemmeno il minimo delle precauzioni richieste in paesi molto meno pericolosi.
Stavolta non è la costa, come accadde per i tecnici della Bonatti. Libia estrema, adesso: sudovest torrido del Paese, dove piovono otto millimetri d’acqua all’anno. Siamo a una manciata di chilometri dal confine con l’Algeria, lungo l’autostrada del commercio e della disperazione; la carrareccia che attraversa il deserto collegando la riva mediterranea con il Niger e i Paesi del Sahel. Zona controllata politicamente dal governo, ma nessuno controlla nulla in questo deserto fragile di bande e predoni, dove i tuareg sono divisi da sempre.
Eppure non avevano scorta armata, gli operai rapiti. Un semplice fuoristrada con autista locale. «Saggio da parte di Renzi non entrare in guerra, ma è ipocrisia cercare di tenere lontani gli italiani dalle proprie imprese in Libia. Tornerò presto per tutelare i miei interessi», disse sei mesi fa alla Stampa Giorgio Vinai, titolare della Conicos, commentando il «consiglio» del premier di non rischiare dopo la morte dei due tecnici della Bonatti: «L’Italia lascia sole le piccole e medie imprese – attaccava Vinai – rivolgendo tutti gli sforzi a tutela degli interessi dei colossi».
Sarebbe troppo facile dare la colpa agli imprenditori che rischiano, è il loro mestiere; ma quando arriva il conto, e sono gli operai a pagarlo rischiando la vita, sulle scrivanie delle nostre istituzioni si battono i pugni con rabbia. Sono state prese tutte le precauzioni possibili per evitare un pericolo prevedibile?
Perché c’è un capitolo spinoso sul quale la diplomazia italiana vorrebbe concentrarsi, in Libia. La missione navale europea Eunavfor Med aspetta ancora l’invito del governo di Tripoli, e si limita a far rispettare l’embargo sulle armi restando fuori dalla acque territoriali. Sul terreno abbiamo la missione Ippocrate a Misurata: sei medici e altrettanti infermieri nell’ospedale, protetti dai parà. Intanto si lavora di fioretto per districarsi senza inimicare, e invece ecco un bel guaio su cui concentrare la diplomazia: salvare la vita a due operai italiani, anziani ed esperti, lasciati troppo soli su un campo così infido.