la Repubblica, 18 settembre 2016
Quei diecimila messaggi arrivati a casa Moro durante la prigionia dello statista (e dopo)
“Sono un umile cittadino”. “Sono una semplice infermiera”. “Sono un operaio figlio di operai”. “Sono una vecchia insegnante”. “Sono un modesto pensionato”. “Sono uno sconosciuto”. “Sono un detenuto”. Il coro potrebbe allargarsi ancora, in una polifonia che include scolari e ottuagenari, analfabeti e accademici, disperati e benestanti, gente anonima e capi di stato, una folla incredibilmente variegata che nei cinquantacinque giorni più lunghi della Repubblica fu resa omogenea da un unico gesto comune. Il gesto della scrittura privata che si fa atto pubblico: la lettera come strumento di partecipazione a un dramma collettivo.
Sono oltre diecimila i messaggi arrivati a casa Moro durante la prigionia dello statista – e anche nei decenni successivi –, impetuoso fiume di parole che prende forma di missive, telegrammi, cartoline, disegni, fotografie, giornalini scolastici, piccoli pensieri spediti da un’Italia spaesata, preoccupata, ferita, ma ancora carica di passione e dignità civile. Un paese in bianco e nero che entra nella tragedia in punta di piedi.
Ci sono storie che non finiscono, e la morte di Moro è una di queste. Ma se alcuni capitoli sono stati lungamente investigati, anche perché mai del tutto risolti, una parte è rimasta sotterranea, nascosta per quasi quattro decenni nella coscienza più profonda della società italiana. Quali sentimenti, paure, rabbia, speranze suscitarono il sequestro del leader democristiano e l’assassinio dei cinque uomini della sua scorta? E perché quel paese lunarmente lontano ancora ci interpella, oggetto di repulsione o rimpianto, comunque deposito di energie positive dissipate nel corso degli anni?
È anche per rispondere a queste sollecitazioni che – nel centenario della nascita di Moro – lo storico Umberto Gentiloni ha avuto l’idea di rendere pubblico “il carteggio di solidarietà”, conservato nell’archivio Flamigni: una selezione delle carte figura ora ne Il giorno più lungo della Repubblica, saggio che indaga sulle emozioni di quell’Italia sommersa. Rimaste chiuse per decenni in buste di plastica, sopravvissute ai traslochi della famiglia Moro, le lettere disegnano un paese generoso e consapevole che attraverso la scrittura privata tenta di ricucire lo strappo inflitto alla comunità dall’attacco brigatista. Un’Italia sospesa «tra speranza e tempesta» – così la definisce il figlio dello statista, Giovanni Moro – comunque decisa a non cedere al ricatto della violenza. “Carissima signora Moro sono una ragazza di tredici anni. Le scrivo perché voglio che sappia che i giovani non sono tutti corrotti e violenti”. E ancora, una madre di famiglia romana: “Siamo tutti indignati e addolorati. Suo marito è necessario alla patria, al partito, alla sua famiglia. Ci colpiscono a noi tutti”.
Non è in gioco solo il destino del leader democristiano, ma quello di un paese intero. La figura di Moro è vissuta come simbolo di un percorso democratico cominciato sulle macerie della guerra e bruscamente interrotto la mattina del 16 marzo. Di quella storia si sentono parte tutti, indipendentemente dalla posizione sociale o dal colore politico. Via Fani diventa il luogo simbolico di una lacerazione che deve essere ricomposta. E a “via Fani” è indirizzata spontaneamente gran parte delle lettere, non all’indirizzo della famiglia Moro ma nella strada dell’eccidio. La salvezza del prigioniero è speranza di salvezza per la comunità. «Ed è proprio in questa partecipazione corale, nella memoria condivisa, nel robusto sentimento nazionale che si può rintracciare la siderale distanza tra quel paese e l’Italia odierna», dice Gentiloni. La politica è ancora una sfera alta e nobile, a cui guardare con rispettosa fiducia. Il presidente della Dc assume sembianze di santo laico, “santo non ufficializzato” lo definisce Carlo Salciccia, il maresciallo che per tanti anni l’aveva scortato, patrono di una comunità che gli riconosce “eroiche e nobili virtù”. E alla politica si delega la responsabilità delle scelte. «Non è un caso», prosegue Gentiloni, «che le lettere non portino quasi mai traccia delle grandi questioni che allora laceravano il dibattito pubblico: trattativa sì, trattativa no; fermezza sì, fermezza no. Quelle decisioni spettavano alla classe politica dirigente. Ma questo non significava sentirsi estranei a una tragedia che riguardava ogni singolo cittadino».
Le prime a mobilitarsi furono le scuole, straordinario canale di formazione di una coscienza civile. Fin dal 17 marzo – il giorno immediatamente successivo alla strage – le maestre si mettono all’opera con i bambini per elaborare un lutto nazionale non meno traumatico di un lutto privato. La grafia tonda e infantile stride con la sostanza tragica delle parole, imbevute delle gravi preoccupazioni intercettate nelle conversazioni in famiglia. “Gentile signora io sono una bambina di sei anni e volevo dirle che non deve piangere tanto perché le si sciupano gli occhi”. “Le Brigate Rosse sono senza cuore”, scrive un gruppo di scolari della seconda elementare. “Anzi forse ce l’hanno ma nascosto in un cubetto di ghiaccio”. Già a dieci anni formulano domande da grandi: “Ma perché questo?
Dove si vuol arrivare? Chi finanzia questi assassini?”.
Talvolta preferiscono rivolgersi direttamente a Moro: “Ho visto in televisione quello che ti è successo”.
“A casa mia si parla tanto di te”. “Ci dispiace che ti hanno rapito in questa maniera ammazzando i cinque poliziotti”. “Ti vogliamo bene, torna presto”.
Non sono soltanto i bambini a prendere la penna in mano. In tantissimi avvertono l’urgenza di scrivere alla famiglia Moro, privati cittadini e anche associazioni, parrocchie, assemblee di condominio, Rotary Club, comitati di quartiere, centri sportivi, consigli di fabbrica, la federazione dei canoisti italiani. Un tessuto sociale stratificato che riflette un’Italia viva, che legge i giornali, ascolta la tv, discute, analizza, soprattutto capace di tradurre pensieri articolati in scritture limpide e profonde. “Tra le grandi date che hanno segnato l’evoluzione della società italiana verso uno Stato di diritto, contro la prevaricazione, la violenza, la barbarie, certo si annovera il triste e cupo nove maggio”: a firmare un lungimirante giudizio storico è un gruppo di operai provenienti da varie fabbriche. Sono trascorse solo poche ore dal ritrovamento in via Caetani del corpo del leader ucciso.
Il dolore chiama altro dolore. Casa Moro finisce per diventare il luogo dove riannodare sofferenze private e pubbliche. E al dramma famigliare della signora Norina e dei figli si associano tribolazioni personali o anche passaggi della storia italiana altrettanto tragici, come tasselli di una trama nazionale che non deve essere smarrita. “Vogliamo ancora la Resistenza: noi di allora siamo pronti a ricominciare come trentatré anni fa”, scrive la figlia di un partigiano deportato e mai più tornato. Scrive anche chi ha già pagato un tributo di sangue al partito armato, come la vedova del vicequestore Vittorio Padovani ucciso durante un conflitto a fuoco. E scrive il figlio di Domenico Ricci, uno dei caduti di via Fani. Non recrimina, Giovanni. Aspetta quasi trent’anni prima di spedire la sua lettera. Non vuole voltarsi indietro, non ha rancore né rabbia da sfogare. Vuole solo essere testimonianza del padre, un padre appena sfiorato e per sempre rimpianto. “Ho scelto la memoria”, scrive, “perché un paese senza memoria taglia le sue stesse radici”.
Che fine ha fatto questo paese fotografato dall’archivio di casa Moro? «Non esiste più», dice Gentiloni. Il funerale di Moro fu anche quello della Repubblica, come in molti hanno scritto. E soprattutto decretò la fine di quell’Italia che oggi ci parla dalle lettere, un paese solidale che non urla né sbraita, autenticamente devoto, che chiede scusa prima di entrare in casa d’altri. Una «riserva di valori etici e morali», la definì Pietro Scoppola, che avrebbe poi faticato a trovare uno sbocco politico unitario e coerente, refluendo in una «grande sfiducia» e più tardi negli umori astiosi dell’antipolitica. Per questo ancora quell’Italia ci parla. Vale la pena di ascoltarla.