la Repubblica, 18 settembre 2016
Bratislava e il j’accuse di Renzi
Con uno sfogo tanto improvviso da sembrare quasi coreografato, Matteo Renzi ha lasciato il vertice di Bratislava tuonando contro i partner europei. In particolare, il premier furioso ha attaccato duramente la Germania, colpevole di fare troppo poco per rimediare ai suoi squilibri economici che danneggiano l’intera area dell’euro.
Il j’accuse del premier è probabilmente frutto anche di un calcolo politico. In un’era di crescente euroscetticismo, prendersela con l’Ue può aiutare a racimolare qualche voto in vista del referendum sulla riforma costituzionale. Ma, dal punto di vista economico, la posizione italiana sul tema dell’eccessivo surplus esterno tedesco è corretta. La sfida, però, è non usare questa critica per giustificare gli annosi problemi della nostra economia o, ancora peggio, per provare ad ottenere spazio per politiche economiche sbagliate.
Il cosiddetto “conto delle partite correnti” misura la differenza fra le esportazioni e le importazioni di un Paese, a cui vanno aggiunti quei flussi di denaro legati ad attività svolte o detenute all’estero. Uno Stato con il “conto corrente” in surplus è dunque creditore nei confronti del resto del mondo, da cui riceve flussi finanziari in cambio dei beni e servizi che esporta. In caso contrario, è ovviamente debitore.
Queste definizioni non devono trarre in inganno. Ci possono essere delle ottime ragioni per avere un conto delle partite correnti in rosso. Per esempio, un’economia emergente ha bisogno di indebitarsi per fare gli investimenti necessari per crescere. Invece, i Paesi con una popolazione che sta invecchiando fanno bene ad accumulare risorse finanziarie, perché queste verranno spese quando ci saranno molti anziani.
L’anomalia tedesca è che il suo surplus esterno – ormai quasi al 9% del prodotto interno lordo – è ingiustificabile anche tenendo conto di questi fattori di fondo come la demografia. Tutti in Germania, dai consumatori alle aziende, stanno spendendo meno di quanto potrebbero. Anche il governo ha raggiunto ormai un piccolo surplus fiscale, nonostante un debito pubblico di dimensioni sostanzialmente ridotte.
Gabriel Stein, economista della società di consulenza Oxford Economics, ha ben spiegato in una recente nota di ricerca come questo enorme attivo renda la vita più difficile alle altre aziende dell’eurozona, che fanno fatica a competere con le imprese tedesche senza l’arma della svalutazione. Inoltre, siccome la domanda interna nei Paesi periferici è crollata dopo anni di crisi, questo problema si sta trasferendo al resto del mondo, che si trova a importare sempre più beni e servizi tedeschi. Stein ha calcolato che il conto delle partite correnti del resto del mondo deve peggiorare di oltre 100 miliardi di euro per ogni punto percentuale in più di surplus esterno da parte dell’eurozona – una cifra enorme. Non è un caso, se gli altri Paesi, a partire dagli Stati Uniti, si siano lamentati del comportamento tedesco.
Le regole europee prevedrebbero, in teoria, che nessun Paese possa avere un surplus esterno maggiore del 6%. Ma nonostante la Commissione europea abbia più volte messo sotto osservazione la Germania, il regime sanzionatorio e la volontà politica di Bruxelles sono troppo deboli per passare a misure efficaci contro Berlino.
Bene fa dunque Renzi a ricordare alla Germania i suoi obblighi nella struttura economica europea. Maggiori investimenti, da parte del settore privato quanto del settore pubblico, potrebbero inoltre aiutare la crescita della produttività tedesca, che tra il 2001 e il 2014, secondo dati Ocse, è stata inferiore persino a quella francese. L’alternativa è usare le risorse accumulate per investire all’estero, con risultati che, come dimostra la bolla immobiliare in Irlanda e Spagna alimentata anche dalle banche tedesche negli anni 2000, possono essere spesso disastrosi.
L’errore da non commettere è però quello di pensare che una riduzione del surplus esterno tedesco possa avere effetti radicali sulla nostra economia. Come Erik Nielsen, capo economista di UniCredit, ha più volte ricordato, solo una porzione limitata di un eventuale stimolo fiscale da parte di Berlino finirebbe indirettamente nei conti in banca delle nostre aziende. Alcuni nostri imprenditori beneficiano inoltre della forza delle esportazioni tedesche, poiché vendono in Germania pezzi di prodotti che poi finiranno all’estero.
È infine evidente come il principale vincolo a politiche maggiormente espansive in Italia non venga tanto dalle regole europee, ma da una situazione della finanza pubblica che resta precaria a causa dell’alto debito. Le critiche di Renzi sono benvenute se servono a rafforzare la governance dell’eurozona. Se il loro obbiettivo è spostare l’attenzione da quello che dobbiamo fare come Paese, meno.