Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  settembre 18 Domenica calendario

L’hanno rapita, stuprata e costretta a uccidere. Poi i militari l’hanno salvata dal linciaggio ma in caserma l’hanno violentata in gruppo e massacrata di botte fino a paralizzarle le gambe. L’agghiacciante testimonianza di una sopravvissuta a Boko Haram

Sia pure armati di vecchi fucili e con le uniformi rattoppate, i soldati sono ovunque. Presidiano Gwoza, effimera capitale del Califfato africano riconquistata l’anno scorso dall’esercito nigeriano, dove le sole impronte lasciate da Boko Haram consistono in qualche croce spaccata nelle chiesette locali e nei ruderi anneriti di una moschea e di un paio di caserme date alle fiamme. «Ma nella memoria di chi è sopravvissuto alle loro atrocità, gli islamisti hanno lasciato tracce indelebili e dolorosissime», dice la 24enne Farmasa Yakubu, su una sedia a rotelle in un malconcio presidio medico di questa cittadina dei monti Mandara, nello Stato nordorientale di Borno.
Le milizie jihadiste la sequestrarono il giorno stesso del loro ingresso a Gwoza, agosto 2014. «Dopo qualche ora provai a fuggire, ma ero incinta. Mi riacciuffarono e mi portarono nella vicina foresta di Sambisa, dove la prima notte di prigionia persi il bambino», ci racconta la donna. Arrivata nell’inespugnata roccaforte di Sambisa, un territorio grande due volte il Belgio, dove una volta gli inglesi andavano a cacciare il ghepardo e colonizzato da acacie e arbusti spinosissimi, i suoi rapitori le dissero che l’avrebbero risparmiata perché era ancora giovane. Ma doveva scegliere: o sposarsi uno di loro diventando di fatto la sua schiava sessuale oppure combattere per la setta. «Pur di non farmi toccare da quegli schifosi, ero pronta a tutto», dice ancora Farmasa.
Per tre mesi si sottopose a un estenuante addestramento, durante il quale le fu insegnato a smontare e rimontare un fucile, a sparare e anche a servirsi di un pugnale. In quei 90 giorni, mentre da vittima si trasformava in carnefice, dormendo sulla nuda terra e mangiando soltanto riso e fagioli, Farmasa dimagrì di 15 chili. «Non c’erano né radio né tv e quando non mi esercitavo mi costringevano a pregare. Di notte il mio incubo erano i serpenti: Sambisa ne è infestata. Di giorno temevo invece i bombardamenti aerei perché sebbene i rifugi fossero costruiti al riparo dagli alberi vedevo di continuo i caccia nigeriani passarci sulla testa. Capitava spesso che gli islamisti giustiziassero un ostaggio sotto i miei occhi, ridendo durante la sua decapitazione e filmandola con il cellulare». Farmasa racconta che nell’aritmetica della ferocia di Boko Haram è prevista la morte anche per chi non riesce a sopportare fino alla fine le durezze del suo addestramento militare.
Ora, secondo la sua testimonianza che combacia con altre raccolte negli ultimi mesi dalle organizzazioni umanitarie, molti soldati del movimento terrorista si chiamano Amina, Faria o Djamila. Le donne di Boko Haram, sostiene Farmasa, non sono soltanto mogli o sguattere ma anche tagliagole. E tutte assieme costituirebbero più della metà dei suoi effettivi. Del resto, secondo Amnesty Internatio- nal soltanto l’anno scorso la setta ne ha rapite almeno duemila. «Indottrinandoci con il terrore ci hanno insegnato a uccidere a sangue freddo, perciò durante gli attacchi nei villaggi, i civili inermi sono accoppati anche dalle donne», spiega Farmasa.
Questo coinvolgimento femminile è confermato da un colonnello delle Brigades d’intervention rapide del Camerun, i corpi speciali che da un anno cercano di contenere lo straripamento jihadista oltreconfine. Dice il militare: «Mi è capitato di scontrarmi con combattenti donne che imbracciavano un kalashnikov e indossavano il burqa. Numerosi sopravvissuti hanno raccontato che durante i raid di Boko Haram sono le grida delle sue soldatesse a sovrastare tutte le altre». Quanto agli attacchi suicidi, sono portati a termine essenzialmente da ragazze o ragazzi giovanissimi. Così giovani che spesso non sanno neanche che indossano un giubbetto carico di esplosivo. Si stima che dall’inizio del 2016 siano stati utilizzati 38 bambini per effettuare attacchi suicidi nella regione del bacino del lago Ciad, raggiungendo così un totale di 86 bambini attentatori dal 2014.
Già, perché oltre che contro le donne, la guerra di Boko Haram è diretta anche contro i più piccoli, come spiega Gianfranco Rotigliano, rappresentante dell’Unicef in Nigeria: «Nelle zone appena riconquistate dall’esercito abbiamo trovato 245mila bambini in condizioni di malnutrizione severa acuta. L’estrema violenza di Boko Haram ha causato 1,4 milioni di bambini sfollati con almeno un milione ancora intrappolati in zone difficili da raggiungere». Ieri, l’esercito nigeriano ha affidato all’Unicef 355 bambini, parte di un gruppo di 566 persone liberate recentemente dalle mani degli estremisti.
Per descrivere il grave peggioramento di questa crisi basti dire che Medici senza frontiere conta nella regione circa 600 operatori umanitari, che curano i malati ma che gestiscono anche diversi campi d’accoglienza per chi fugge dalle violenze. Il capo missione Hughes Robert sostiene che, oltre all’estrema criminalizzazione della setta, la grande difficoltà per le ong è l’assenza totale di collegamenti con gli islamisti. «In tutta la regione, il commercio è stato interrotto, i trasporti sono bloccati e l’agricoltura è azzerata, il che provoca un impatto economico massiccio sulle popolazioni locali, che sono già tra le più povere del pianeta», spiega Robert. Il capo missione di Msf dice anche che nel Nord della Nigeria l’esercito controlla solo le strade e i grandi centri, mentre la boscaglia e le ampie savane sono ancora nelle mani di Boko Haram.
Proprio come accade a Gwoza, protetta da centinaia di soldati impauriti e malpagati, ma non per questo meno rozzi e brutali dei loro nemici. Quando finirà la stagione delle piogge, che qui si traduce in una nebbiolina bagnata e asfissiante che per poche settimane avvolge ogni cosa, i vertici militari nigeriani si dicono pronti a lanciare la loro offensiva contro Sambisa. Un’offensiva dall’esito prevedibilmente inconcludente, perché qui l’esercito è più che altro sulla difensiva, rispondendo come può alle frequenti e micidiali incursioni degli islamisti nascosti nelle grotte dei monti Mandara.
Per questo motivo Farmasa vorrebbe raggiungere al più presto Maiduguri, il capoluogo di Borno che dista 135 chilometri. Ma lei è in sedia a rotelle, il che rende tutto più complicato. «Sono quelli là chi mi hanno reso inferma», dice indicando i soldati che vediamo pattugliare in strada. «Un anno fa, gli islamisti mi dissero che era giunto il mio turno di farmi esplodere in un mercato di Gwoza, perché come soldato non valevo granché. Mi costrinsero a indossare una cintura carica di esplosivo dicendomi che altrimenti m’avrebbero comunque bruciata viva. Ma appena arrivata città qualcuno m’ha riconosciuta. Ero terrorizzata, e non ho avuto il coraggio di azionare il detonatore. Sono stati i militari a salvarmi dal linciaggio. In caserma mi hanno però prima violentata in gruppo, poi, durante l’interrogatorio, mi hanno massacrato di botte fino a rompermi una vertebra e paralizzarmi le gambe».
Sono gli stessi soldati che ci hanno portato da Farmasa, mostrandocela come un trofeo vivente della guerra contro Boko Haram. Dopo il suo arresto avrebbero potuto ucciderla, ma hanno preferito storpiarla.
La porta del centro sanitario dove l’hanno parcheggiata è sempre aperta. Tanto da lì lei non può fuggire.