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 2016  settembre 18 Domenica calendario

Trump, la mafia e l’Fbi. Le rivelazioni del Washington Post

Nel 1987 Donald Trump scrive il suo primo libro e lo intitola «The Art of the Deal», l’arte di fare affari. Con tutti, in effetti: politici, sindaci, governatori, finanzieri e anche faccendieri, informatori dell’Fbi, intrallazzatori collegati alle famiglie storiche di Cosa Nostra a New York.
Trentasei anni fa, sulla Quinta Strada, di fianco a Tiffany, resisteva l’edificio storico di un vecchio marchio in difficoltà, Bonwit Teller. Un costruttore poco più che trentenne, figlio di un palazzinaro di Brooklyn, acquista il terreno e lo demolisce. Vuole costruire una grande torre dorata per uffici e appartamenti di lusso e piazzarci il suo cognome: Trump. Un edificio vistoso come un dente d’oro in un sorriso perfetto, si disse allora.
Ma il cantiere va a rilento. I muratori sono quasi tutti polacchi: immigrati clandestini che però reclamano paghe decenti e orari di lavoro contrattuali. L’imprenditore ha fretta: ogni giorno perso significa più tasse da pagare. Così una sera del 1980 decide di chiedere aiuto a Daniel Sullivan, quarantenne di origine irlandese, alto, massiccio, ufficialmente un consulente del lavoro e con una fedina penale già macchiata da condanne per appropriazione indebita e aggressioni a mano armata.
Sullivan si mette all’opera. Si muove con agilità nel sottobosco della New York di quegli anni. È stato un attivista sindacale e quindi ha legami stretti con la leadership delle Unions. Ma ha rapporti anche con i Gambino e i Genovese, due delle cinque famiglie mafiose che almeno fino alla fine degli anni Ottanta prosperano a New York.
La città degli affari è una palude. I clan ingrassano spacciando droga, ma anche infiltrandosi nell’indotto del settore edilizio. Monopolizzano le forniture di cemento e di calcestruzzo, il movimento terra, le demolizioni; condizionano i sindacati. Chi in quegli anni voleva costruire nella Grande Mela, spesso doveva trattare con Cosa nostra o con mediatori come Daniel Sullivan.
In questo contesto si colloca l’inchiesta pubblicata ieri dal Washington Post, che rivela i rapporti d’affari ambigui tra Trump e Sullivan. I due si erano conosciuti nel 1979 quando The Donald negozia proprio con l’irlandese l’acquisizione di una quota nel progetto del Grand Hyatt Hotel. Nell’aprile del 1981, domati gli operai polacchi sulla Quinta, Sullivan va a trovare Donald. Si presenta con due funzionari dell’Fbi. Vogliono parlare con Trump che in quel momento sta progettando l’apertura di un casinò ad Atlantic City. Uno dei due agenti si chiama Walt Stowe, 31 anni all’epoca. Sullivan e Stowe stavano consolidando un sodalizio che presto coinvolgerà anche Trump. Di recente il candidato repubblicano ha minimizzato la forza di quell’inedito triangolo. Di Stowe, la fonte principale del Washington Post, ha detto che è «un uomo di grande qualità», ma «non un amico»; di Sullivan, morto di infarto a 54 anni, nel 1993, che «è stato solo un consulente per un breve periodo».
Sullivan, in realtà, era stato un informatore dell’Fbi fin dagli anni Sessanta. Si portava dietro una lunga scia di sospetti. Si pensava, tra l’altro, fosse implicato nella fine di Jimmy Hoffa, il controverso sindacalista collegato alla mafia sparito nel luglio del 1975 e dichiarato morto nel 1982.
Le impronte di Sullivan e anche dell’agente Stowe compaiono nei primi «deal» di Trump. Il casinò di Atlantic City ne è un esempio. Fu Sullivan a procurarsi il terreno, coinvolgendo Stowe e altri partner, tra cui Kenneth Shapiro, uomo vicino al boss di Filadelfia, Nicodemo Scarfo, detto «Little Nicky».
In un secondo momento nell’operazione entrò anche Trump e si compose un quadretto classico dell’«American dream» di quegli anni: il faccendiere, il poliziotto intrallazzatore, il mezzo mafioso, il costruttore disinvolto.