Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  settembre 17 Sabato calendario

Il serbatoio di emozioni di Gabriele Muccino

L’infanzia addosso di Gabriele Muccino. «Ho avuto da sempre un forte legame con un mondo ideale, che ho costruito e nel quale ho navigato per molti anni. Durante tutta la mia crescita sono sempre stato estremamente solitario. Ricordo camminate, specialmente in campagna, di ore, in cui canticchiavo, fabbricavo, costruivo un immaginario che mai avrei pensato, allora, si sarebbe incanalato in un linguaggio filmico. Semplicemente, la mia esistenza che doveva essere accompagnata dalla fantasia e dalla musica». Questo mondo puro e infantile è il bagaglio intangibile, immateriale che il regista romano, 49 anni, ha portato con sé e da cui ha pescato per raccontarci incontri, passioni, pulsioni, gioie di quattro ragazzi in “L’estate addosso”, appena consegnato alla sala. «Non ho mai conservato nulla e ancora oggi non conservo nulla di mio. Non sono un feticista. Io non posseggo neanche i miei film. Nessuno. E non li riguardo mai. Mi dà fastidio anche l’approccio di chi si rispecchia in qualcosa che riguarda il passato, perché ho paura di guardarmi indietro e perdere l’energia per guardare avanti, che invece è una pulsione fondamentale». «Camminavo pensando di essere Sandokan, immaginando l’arrivo di una tigre». Gabriele Muccino racconta così il mondo ideale che ha costruito da piccolo e che è diventato un prezioso serbatoio di creatività.
E continua: «Ero un bimbo solo che si proiettava in vite e situazioni parallele, vivevo immaginandomi in altre realtà. La socializzazione con il mondo reale mi sembrava troppo aliena e semplice. Avevo bisogno di stare nel mio mondo personale e inaccessibile. Al liceo poi ho dovuto cambiare altrimenti sarei diventato un dissociato. Non riuscivo a entrare in contatto con gli altri ragazzi. I compagni parlavano di calcio, che io non ho mai seguito. Le ragazze erano un emisfero ignoto per il quale non avevo nessuna password per accedere». Ad accendere la miccia della fantasia è stata la madre. «È una pittrice, mi ha sempre molto stimolato a viaggiare con la fantasia. Mi addormentava con i valzer di Strauss. Mi portava a vedere
La tempesta di Shakespeare a sei anni. Per cui io ho avuto una sorta di formazione molto più adulta rispetto alla mia età, che però mi ha sicuramente costruito e segnato». I problemi di socializzazione sono arrivati al liceo. «Iniziai anche a balbettare perché non sapevo come vincere la mia timidezza. Sono ancora una persona timida, mi sono realizzato attraverso una valvola che ho avuto la fortuna di poter aprire: poter materializzare il mio mondo personale, sconosciuto agli altri, che ha preso una forma che si è definita sullo schermo cinematografico». Il cinema è stata la soluzione. «È stata una coincidenza di fattori incredibili, ma anche il risultato di tanta tenacia. Non è che il cinema mi sia caduto addosso. Per anni ho cercato, attraverso cortometraggi e quel che potevo fare, di crescere e diventare un regista».
Quel suo mondo immaginario è diventato un prezioso serbatoio artistico. «Ancora oggi, quando racconto, penso a quello che mi ha segnato, ferito, definito o reso euforico e trasformo queste emozioni in cinema». Fare cinema significa abitare altre vite, entrare in mondi lontani e farli convivere con il proprio. «Se scrivo L’ultimo bacio rubo da me stesso tutto ciò che posso: le mie molteplici anime, razionali e non, diventano personaggi. Se faccio un film scritto da altri, come Alla ricerca della felicità su un uomo di colore nella San Francisco degli anni Ottanta, che diventa un homeless e riesce farcela in un mondo di broker bianchi nell’America razzista, devo entrare sotto la pelle di qualcuno che non conosco e che devo imparare a conoscere profondamente, per poterlo raccontare. Un percorso che si è rivelato affascinante. Per Alla ricerca della felicità ho frequentato moltissimi homeless, ho intervistato broker. Per Setta anime ho assistito a un’operazione di trapianto di cuore di sette ore, al fianco del chirurgo. Tutte queste esperienze mi entra- no dentro, le incamero e le filtro, le metabolizzo attraverso la mia sensibilità. Che è sempre la stessa anche se alterata dall’inquinamento dell’età». Più si cresce e più l’età ci inquina: «Le stratificazioni arrivano da ciò che ci ha danneggiato, ferito, reso più cinici e sospettosi verso gli altri. Da bambini si è più impreparati al mondo. Un po’ come l’Italia degli anni Cinquanta, ancora senza plastica mentre ora il mondo naufraga per mille motivi. La vita ti pone in una serie di situazioni che sono materialmente non trascurabili. Si è ridimensionata molto, per me, la possibilità di stare in una bolla. Questa bolla viene alterata, subisce infiltrazioni da parte della realtà, che a volte è fastidiosa. Fare i conti con il reale è una distrazione da quello che vorrei perseguire. Starmene nel mondo fantastico. Al resto ci si pensa poi. E poi magari esce anche un film. Invece la mia passione è diventata un lavoro». Ecco perché a quarantanove anni ha scelto di rimettere indietro le lancette del tempo, tornare a raccontare l’età in cui il mondo è una promessa, come ha fatto con L’estate addosso.
«Sì, l’idea era di liberarmi di tutto quell’inquinamento che la vita mi ha costretto a portarmi addosso. Vivere è giusto, nel bene e nel male, nel dolore e nelle sconfitte, nelle gioie e nelle ricadute. Ma tornare ai diciott’anni significa tornare vergini. Passare attraverso il filtro purificatore che ti riporta a un momento della vita pieno di verità portate in tasca. Che poi la vita ti ribalta. Il momento in cui si è divisi tra la proiezione di ciò che vorremo essere e la paura di quel che potremmo diventare. Divisi tra bisogno d’amore e i stanza di fuga».
Rivivere tutto questo è stato per Gabriele Muccino «bello e purificatorio. C’è moltissimo di me stesso in questo film. I miei ricordi, le persone che ho conosciuto, le emozioni di quell’età in cui fatti semplici diventano dolorosi, il dolore lo si vive in modo assoluto. Senza la presa di distanza che chiamiamo cinismo, rispetto al dolore che la vita ci consegna. Il distacco ci risparmia dal dolore, ci protegge ma ci impedisce di vivere fino in fondo le esperienze».
Quanto di questo mondo interiore il regista lo ha trasmesso ai tre figli? «Io ero estremo. Nessuno di loro ha quella tendenza alla solitudine che avevo io. Sono tutti molto più solidi. Nessuno di loro esce alle cinque di mattina quando ancora è buio per camminare nei prati. Non so nemmeno come i miei genitori all’epoca me lo abbiano permesso. Erano anni diversi, oggi forse non sarebbe possibile». Sorride: «Ricordo quelle lunghe estati in campagna, dove i miei sono ancora oggi. All’alba uscivo di casa, camminavo fino all’ora di pranzo. No, nessuno dei miei figli ha questa ossessione che a me ha portato serenità, finché almeno non sono dovuto uscirne». La grande indicazione di Muccino padre è «di andare dove li porta il cuore. Non sarò mai un genitore che porrà paletti a sogni e ambizioni di fare qualcosa anche di impossibile. L’impossibilità è una meraviglia da perseguire. Il percorso verso ciò che sogniamo è qualcosa che ci mette profondamente in contatto con noi stessi, quindi ci rende già felici».