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 2016  settembre 19 Lunedì calendario

La storia di Emilio Coveri che da vent’anni si batte per il diritto a una morte dignitosa

L’argomento è di quelli di cui nessuno parla mai volentieri: la morte. C’è una persona che invece sfida questo tabù e da anni si occupa della fine dei nostri giorni, tanto da farne una battaglia di civiltà e libertà. È Emilio Coveri, 65 anni, torinese doc. Venti anni fa Coveri fondò Exit Italia, associazione che si batte per il diritto a una morte dignitosa. Exit vorrebbe legalizzare in Italia l’eutanasia, pratica che al momento è ammessa solo in Olanda, Belgio e Lussemburgo, nazioni che però non accettano stranieri.
C’è poi un’altra soluzione, praticabile in Svizzera, Canada e in Oregon, negli Stati Uniti. Si chiama morte volontaria medicalmente assistita, detta anche suicidio assistito. In Svizzera arrivano da tutto il mondo pazienti che, pagando, decidono di porre fine alla propria vita. Molti di loro lo fanno grazie alla Exit.
Coveri, il fatto che l’eutanasia sia legale in tre soli paesi al mondo non la fa riflettere?
«Sì, e mi fa dire che sono gli stati più avanzati dal punto di vista mentale e sociale. Lì hanno ritenuto l’eutanasia una conquista sociale, al pari delle leggi su divorzio e aborto. Una scelta di libertà».
L’hanno definita il dottor morte.
«Insulti che non mi toccano. Sono orgoglioso di quel che faccio. E se lo vuole sapere, tanti cattolici ci appoggiano e dissentono sul concetto che la vita sia sacra».
Non lo è per lei?
«No. Poi può essere sacra finché vuole ma quando soffro la pellaccia è la mia, non la sua. E se permette decido io se prendere una supposta o sottopormi a chemioterapia. Ricordi Indro Montanelli, parole che andrebbero scolpite: “Se abbiamo un diritto alla vita, abbiamo un diritto alla morte. Deve essere riconosciuto a noi il quando e il come morire”.
Da quanto esiste Exit Italia?
«Dal 1996. Il 25 settembre saranno vent’anni esatti».
Chi si rivolge a voi?
«Sono malati gravissimi che non tollerano più di soffrire. Poi ci sono quelli che non stanno male, ma vogliono mettere le mani avanti».
Vogliono fare testamento biologico?
«Esatto, dispongono
le volontà per la fine della propria esistenza. Abbiamo sul sito (www.exititalia.it) il testamento biologico più completo al mondo. È compresa tutta la casistica medico-scientifica per decidere».
Come funziona la procedura per andare in Svizzera? Mettiamo che io voglia farla.
«Chiama me. Ogni settimana lo fanno 80-90 persone. Il paziente deve essere perfettamente in grado di intendere e di volere, deve avere una malattia grave, irreversibile, accertata, e senza più possibilità di guarigione. Non è una cosa semplice. Il 99 per cento di chi chiama è eleggibile alla pratica. Poi ci sono casi assurdi. L’altro giorno mi ha chiamato uno dicendo che voleva farla finita perché la moglie lo aveva lasciato e aveva perso 400 mila euro in Borsa. Non sono elementi sufficienti per potere essere ammessi al suicidio assistito».
Torniamo a chi è eleggibile.
«Mi chiama e si iscrive a Exit».
Quanto costa?
«50 euro l’anno. Al momento siamo 3.590 soci, pochissimi. In Francia sono 48mila, in Germania 80mila».
Perché in Italia sono così pochi?
«C’è il bavaglio dell’informazione nei nostri confronti. Poi gli italiani non leggono, siamo un popolo culturalmente arretrato, medievale per certi versi».
Torniamo alla procedura. Mettiamo che sia malato grave e voglia andare in Svizzera.
«Io le spedisco una busta con tutte le informazioni, lei la firma. Deve allegare le cartelle cliniche con la patologia di cui è affetto. Una commissione medica svizzera composta da tre dottori, tra cui uno psichiatra, esamina il caso e può dare la cosiddetta luce verde».
A questo punto?
«Decide lei se e soprattutto quando procedere. Può anche non farlo mai».
Mettiamo che scelga di andare avanti.
«Va in Svizzera, direttamente dal medico dell’associazione che ha seguito la sua pratica. Noi, come Exit Italia, per non rischiare accuse di agevolazione e istigazione al suicidio, terminiamo il compito quando le spediamo la lettera. Poi diciamo “si metta d’accordo con il medico”».
Chi stabilisce la data della morte?
«Lei. Ricordi, totale libertà. Mettiamo che stabilisce di fare tutto il 15 gennaio. Il giorno prima va in Svizzera. Se non è in grado di farlo autonomamente può chiedere che un’ambulanza svizzera venga a prenderla a casa».
Poi?
«Il giorno prima della decisione finale il medico la visita. Ed è tenuto per legge a fare desistere il paziente dal suicidio».
Ci riesce?
«A volte. Dopo il colloquio con il medico molte persone rinunciano e tornano a casa. Gli italiani mai. Quando si mettono in mente una cosa, la fanno».
Quindi?
«Se il paziente è convinto il medico va in farmacia con una ricetta, registrata in polizia, e ordina la dose letale di pentobarbital di sodio. È una soluzione in polvere da diluire in acqua».
Andiamo avanti.
«La mattina dopo il medico torna da lei. Nuovamente cerca di dissuaderla dal proposito. Ma di fronte al “sì, lo voglio” le somministra due pastiglie di antiemetico, poi le prepara la dose letale. Ma è il paziente che deve berla, autonomamente. Per questo si chiama suicidio assistito. Il medico non interviene attivamente. In trenta secondi lei si addormenta, dopo cinque-sei minuti interviene l’arresto cardiaco».
Fa un po’ impressione.
«In quei frangenti sono presenti volontari dell’associazione, infermieri. È una cosa dolcissima, bellissima».
Addirittura?
«Lo testimoniano molti familiari che hanno accompagnato i loro cari. Il paziente se ne va in serenità. Pensa che non si dovrà più svegliare e affrontare una giornata di dolore e sofferenza».
Andiamo avanti con la procedura.
«Una volta avvenuto il decesso, il medico chiama la gendarmeria e il medico legale dicendo che si è verificato un suicidio assistito come da “protocollo Exit”. Arrivano, constatano che tutto è stato fatto a norma di legge, il medico firma l’atto di morte e la pratica è chiusa. Se il paziente vuole farsi cremare, in serata le ceneri sono a disposizione dei parenti».
Come vanno a morire le persone?
«Spesso sono sole, non avvisano nessuno. Qualche volta i parenti, quando ricevono le ceneri, mi chiamano e mi dicono: “Ma perché non mi ha avvisato?”».
E lei?
«Io rispondo: “Se ve l’avesse detto, voi cosa avreste fatto?” e se uno replica: “Beh glielo avremmo impedito”, io dico: “Allora ha fatto bene a fregarvi”. Ma come, una persona soffre e tu impedisci la sua volontà?».
Voi da quando mandate persone in Svizzera?
«Abbiamo conosciuto l’associazione Dignitas nel 2004. I primi anni erano pochi, in questi ultimi cinque anni saranno andate lì una trentina di persone l’anno. Ma il trend sta aumentando, perché il Parlamento italiano se ne frega e non promuove una legge. Solo in agosto sei persone mi hanno chiesto di andare là, due di loro lo hanno già fatto».
Gli altri quattro?
«Se non hanno avuto ripensamenti, nel momento in cui state leggendo questa intervista hanno attraversato il confine».
Quanto costa morire così?
«Circa 10mila euro. Incide molto il costo della cremazione in Svizzera, poi si pagano i medici, il farmaco, l’eventuale trasporto in ambulanza, i bolli e l’agenzia funebre».
Perché in Italia non c’è l’eutanasia?
«La politica non ci ha mai ascoltato. Allora abbiamo creato la Exit Svizzera italiana-Liberty Life con personale svizzero. Dal marzo 2015 a oggi 45 dei nostri sono già stati su a finire i loro giorni».
Coveri, che rapporto ha con la religione?
«Sono stato allevato dai Salesiani, rispetto la Chiesa e tutti i cattolici, ma sono agnostico, quasi ateo».
Quasi?
«Voglio ancora sperare che ci sia qualcuno lassù, ma non ci credo tanto. Ma quando Francesco I di Roma, che chiamo così perché sembra il Borbone, sputa sentenze da quella finestra, penso: “Prima di parlare paga l’Imu”. Non mi dica, il Papa, che devo fare della mia vita».
Coveri, lei ha programmato la sua morte?
«Le devo raccontare una cosa che forse nessuno sa. Io sono quasi cieco ormai. Ho la retinite pigmentosa, una maculopatia degenerativa, qualcosa da non augurare neppure ai peggiori nemici. Ogni giorno vedo sempre meno. Scendevo dal tram e cadevo, sbattevo contro i pali. Dovevo chiedere tutto a mia moglie Liliana. Non riuscivo a leggere. Non ne potevo più».
Allora?
«Tre anni fa, a giugno, non ho detto nulla a nessuno e sono andato in Svizzera dalla dottoressa Erika Preisig di Lifecircle-Eternal Spirit. Ho fatto la domanda di suicidio assistito. Lei mi ha incontrato il giorno prima e mi ha detto: “Emilio, ti pregherei di pensare ai tuoi amici italiani. Tu hai inventato la Exit, l’hai consolidata, tutti credono in te. Ti chiedo di ripensarci”».
Lo ha fatto.
«Prima le ho detto una bugia. Non è vero che nessuno italiano non ci ha ripensato all’ultimo, uno lo ha fatto».
Lei.
«Io. Sono uscito da quel colloquio, ho pianto, ho fumato due sigarette, sono tornato dalla dottoressa, abbiamo preso un tè insieme e le ho detto: “Va bene, mi dedicherò alla Exit anima e corpo”. Oggi, grazie all’Unione italiana ciechi, ho un computer che mi permette di leggere e me la cavo».
Si è ricreduto?
«No, solamente ho trovato più importante la Exit di me. Ora sto mettendo in grado i miei collaboratori di andare avanti da soli. Il giorno in cui deciderò di tornare in Svizzera sarà la volta definitiva, ma saprò che la Exit continuerà dopo di me».