la Repubblica, 19 settembre 2016
Una vita da arbitro. Ricordi di Abraham Klein
L’appartamento di Abraham Klein, incastonato al decimo piano di un residence a Carmel Beach, è un piccolo museo. Persino accanto alla lavatrice c’è un collage di ritagli di giornale: lo ritraggono con Pelè, Platini, Beckenbauer. In Israele l’ex arbitro è una leggenda, ha 82 anni e ogni mattina nuota in mare dopo lo yoga, sotto lo sguardo amorevole di Bracha, la seconda moglie. Nel portafogli, strani biglietti da visita lunghi come un segnalibro, con la foto di una partita sempre diversa. All’estero si fa riconoscere così. Qui è fra Socrates e Zoff. «Sul treno Roma-Civitavecchia un ragazzo mi ha ceduto il posto, l’ho ringraziato con un cartoncino: questo sono io, l’arbitro di Italia-Brasile 3-2. Nel vagone sono impazziti. Negli alberghi italiani per me hanno sempre una stanza. Spesso, la suite».
Cosa rappresenta per lei quella partita?
«Quando sono triste o mi duole il ginocchio, mia moglie sa che c’è un solo rimedio: apro il pc, cerco Italia-Brasile e mi passa tutto. Ho arbitrato l’incontro più bello della storia. E neanche dovevo esserci. Era scoppiata la guerra del Libano, mio figlio Amit, anche lui arbitro, combatteva al fronte, non sapevo se fosse vivo. Pregai Artemio Franchi, capo della commissione arbitri: “Non darmi gare da dirigere finché non parlo con lui”. Il 18 giugno era il compleanno di Amit, io ero guardalinee in Italia-Perù, a Vigo. Tornai in albergo e trovai finalmente un messaggio di mio figlio. Mi disse che guardavano le partite piazzando la tv sopra a un tank e che mi aspettava in campo. Franchi mi comunicò: “Farai Argentina-Brasile, contento?”. Un regalo. Era la terza gara del gruppo, Brasile contro la vincente di Italia-Argentina. Per tutti era scontato che...».
Che ci arrivasse l’Argentina. Invece lei arbitrò Italia-Brasile, 5 luglio 1982. La tragedia del Sarrià.
«Ero deluso. Dissi agli amici: “Vincerà il Brasile 5-0, sarà una partita banale”. Invece, dopo dieci minuti eravamo già 1-1. Il secondo gol di Rossi fu una campana nella mia testa. Pablito è in copertina sul mio libro, ci siamo rivisti qualche anno dopo, la mia storia è legata anche a lui. Ma l’architetto dell’impresa fu Bruno Conti».
L’immagine finale: testa di Oscar, Zoff para sulla linea, per lei non è gol.
«Gli ultimi cinque minuti durarono cinque ore. Il Brasile nella metà campo italiana. Sembrava lo sbarco in Normandia. Sulla parata di Zoff, ero nella posizione perfetta. Poteva essere l’errore più grande del mondo. Fu il mio capolavoro. Socrates alla fine si complimentò. In Israele avevo assegnato un gol con la palla che non era entrata: ho fatto tesoro dell’errore. Oggi benedico la goal line technology, ti dà una certezza assoluta. Sono solo scettico sulla moviola in campo, l’arbitro deve interpretare molte situazioni in modo soggettivo. Cosa succede se gli assistenti al video la pensano diversamente? E poi non si può spezzettare il gioco».
Con la moviola, ci sarebbe stato il 4-2 di Antognoni.
«Da solo, forse non l’avrei annullato. Ma la mia scelta fu corretta perché mi fidai del guardalinee, messo meglio. Chan Tam-Sun, di Hong Kong. L’ho rivisto qualche anno fa, non abbiamo parlato del fuorigioco ma dell’intervento al ginocchio che ci siamo fatti. Antognoni mi disse: “Ma arbitro…”, e allargò le braccia. Risposi con un gesto di diniego. Un arbitro non deve parlare né spiegarsi. Io non l’ho mai fatto».
La marcatura di Gentile su Zico oggi sarebbe lecita?
«Gentile sarebbe un grande difensore anche oggi. L’avevo studiato, gli facevo sentire che lo osservavo. Zico mi mostrò la maglia strappata, c’era un rigore, ma il guardalinee aveva sbandierato prima. Gli dissi di cambiare maglietta. Un arbitro deve leggere la partita, capire dove sta andando, tutelare gli atleti. Se usi troppi cartellini, la gara ti è già sfuggita di mano. Io ho dato due rossi in vita mia in campo internazionale».
Lei fu anche il guardalinee di Italia-Germania, la finale.
«Stavo dal lato di Cabrini quando sbagliò il penalty. Confesso, esultai. Con lo 0-0 si sarebbe rigiocato due giorni dopo. E io ero stato designato per arbitrare...».
Come comincia la sua storia?
«Sono nato a Timisoara. Romania per me, Ungheria per i miei genitori: Sarah, casalinga, e Vilmos sarto, ex giocatore del Mtk a Budapest. Lui nel 1937 andò in Israele per sfuggire alla Shoah, il resto della sua famiglia fu deportato ad Auschwitz. Restai con mia madre e i suoi parenti. Poi fui fra i 500 bambini mandati ad Apeldoorn per un anno. Tre settimane di viaggio, ricordo la fame con cui addentammo il pane all’arrivo. Ritrovai mio padre ad Haifa soltanto nel 1948. Un giorno mi servivano dei pantaloni e lui era malato, andai da un altro sarto, Yonath. Usciva, correva ad arbitrare una partita. Lo seguii. Si infortunò, mi diede il fischietto: “È semplice, se c’è un fallo, fischia”. Conoscevo le regole, ero stato un attaccante. Avevo 19 anni, iniziai così».
Il suo debutto internazionale ufficiale è Italia-Polonia, nel 1965, a Roma, qualificazioni mondiali.
«Due settimane prima, in gran segreto prendo un aereo da Tel Aviv, compro il biglietto per Roma-Napoli, mi mescolo ai tifosi, torno a casa a sera con l’ultimo volo. Volevo studiare l’Olimpico e l’impatto del pubblico. Un amico dall’Italia mi leggeva la Gazzetta, un altro dalla Polonia mi descriveva i giocatori. Ero maniacale. Correvo venti chilometri al giorno. Non avevo una grande federazione a spingermi, arbitravo gratis. Nel 1982, con 100 dollari di diaria dovevamo pranzare e cenare».
Nel 1970 lei fu designato per Italia-Messico e sostituito all’ultimo. Perché?
«Sono stato avvelenato. Un malore all’aeroporto, la vendetta di Montezuma, dissero. Avevo diretto Inghilterra-Brasile a Guadalajara, la sera c’era stata una festa e qualcuno mi ha messo qualcosa nel bicchiere. Se avessi danneggiato il Messico, dicevano, avrei creato grossi problemi alla comunità ebraica locale».
Dopo l’attentato di Monaco ’72, lei venne considerato un obiettivo del terrorismo.
«Mai avuto paura, e per la Fifa non c’erano minacce. Ma persi il Mondiale ’74 e per cinque anni non ho arbitrato all’estero. Nessuna federazione si assunse il rischio di ospitarmi».
Nel 1978 lei diresse Italia-Argentina 1-0.
«La partita più difficile della mia vita. I morti ammazzati da Videla, la dittatura che premeva sul mondiale, l’Argentina che doveva battere gli azzurri per restare a Buenos Aires. Io coraggiosamente le negai un rigore che non c’era. Dopo l’intervallo, rientrò per prima l’Italia, e fu fischiata. Poi toccava a noi: il pubblico ci avrebbe massacrato. Conoscevo il trucco, lo avevano già usato, e con gli organizzatori finsi di non capire le lingue. Dissi ai guardalinee: “Non ci muoviamo finché non vedo la testa di Kempes”. Entrammo insieme ai padroni di casa, ci prendemmo gli applausi, invece della contestazione. Alla fine lo stadio era assediato, la polizia mi consigliò di restare al sicuro. Io uscii lo stesso, a piedi. La folla si allargò e mi lasciò passare».
Pensa di essere stato il miglior arbitro del mondo?
«No. I migliori sono stati Collina, Jack Taylor, Palotai. Oggi stimo Rizzoli».
Cos’ha fatto nella vita?
«L’insegnante di educazione fisica e il consulente del ministero dello Sport. Ho molti cimeli, forse ne venderò qualcuno. Se la ricchezza è la felicità della propria famiglia, allora io sono un uomo ricco».