17 settembre 2016
In morte di Carlo Azeglio Ciampi
Massimo Giannini per la Repubblica
«Questa non è l’Italia che sognavo...», ripeteva spesso Carlo Azeglio Ciampi, prima che quella che lui stesso chiamava «la prigione del corpo» impedisse allo spirito di prorompere come ancora avrebbe voluto e potuto. Ora si può dire: il Ventennio berlusconiano, con la caduta di valori etici e civici che ha generato, lo aveva segnato. «Povera patria», gli sentivi dire spesso dopo la fine del suo ciclo sul Colle, durante le conversazioni nello studio di Palazzo Giustiniani, le serate nella casa romana di Via Anapo con donna Franca o le domeniche con i soliti amici nella villetta di Santa Severa.
Ed anche nell’ultima stagione politica, quella di Renzi, la speranza di una “rinascita”, che inizialmente c’era ed era forte, stava via via lasciando il campo a una certa disillusione. Aveva guardato con curiosità alla costruzione della leadership renziana, a colpi di piccone sulla nomenklatura Pd. «Se non sgomiti, in politica non ti fanno passare...». Due anni fa aveva condiviso l’urgenza della riforma costituzionale, che oggi sta spaccando il Paese: «Parliamoci chiaro, è giusto superare il bicameralismo perfetto, ed è giusto trasformare il Senato nel centro di raccordo tra l’interesse nazionale e le autonomie locali... », aveva detto prima che la legge Boschi fosse scritta e incardinata in Parlamento. È lecito pensare che sulla scheda del referendum avrebbe scritto un ”sì”, soprattutto per non esporre il Paese a un’altra stagione di instabilità. Ma senza entusiasmo, perché il clima generale, in Italia e ancora di più in Europa, non era quello per il quale aveva speso fino in fondo i suoi 95 anni.
«L’Italia che sognava» era quella “azionista” di Piero Gobetti, passando per Guido Calogero. Un Paese con le radici che affondano nell’Europa federalista, un Paese laico che crede nello Stato di diritto, nel civismo e nel costituzionalismo. Il “Paese delle regole”, come l’avrebbe definito don Sturzo, un altro italiano che il Carlo Azeglio cattolico, ma non apostolico-romano, apprezzava molto. Uomini di un Paese che non esisteva, e che non sarebbe mai esistito.
In quei drammatici anni ‘40 il soldato Carlo, che rompeva le righe dopo la tragedia dell’8 settembre e in mezzo alle truppe allo sbando risaliva le montagne di Scanno, non aveva ancora idea di quali e quante miserie morali aspettavano l’Italia liberata dal fascismo. «Fu una stagione di enormi speranze», diceva, ripensando al suoi passaggi a Giustizia e Libertà e poi al partito di Ferruccio Parri. Aveva letto e amato il Gramsci, alfiere dell’ottimismo della volontà, anche se non è mai stato comunista perché - diceva - «il comunismo mi ha sempre fatto un po’ paura: prima la dittatura del proletariato, poi troppo dogmatismo. Di Chiesa ce n’è già una, basta e avanza…».
Prima del laticlavio quirinalizio c’erano state altre due vite che Ciampi ha attraversato con lo stesso piglio, pragmatico e idealista, di chi prova a risolvere i problemi senza rinunciare ai sogni. «Bisogna sempre guardare avanti. Io non penso mai che si stava meglio quando si stava peggio. Mai...». La “prima vita” alla Banca d’Italia, dove quei sogni ha cercato di incastonarli persino dentro il grafico dell’inflazione e del saggio di sconto. Di quell’avventura si portava sempre dietro un libro, con una dedica autografa: “A Carlo, che porterà l’Italia nella moneta unica europea…”. Gliel’aveva scritta nel 1992 Guido Carli, “visionario” come lui, dopo la firma del Trattato di Maastricht. Una profezia, che per fortuna si è avverata.
C’era una frase che ripeteva sempre, a Palazzo Koch, e che usò una volta come chiosa per le sue “Considerazioni Finali”: «Sta in noi». Diventerà il suo motto, nella sua “seconda vita”, stavolta al governo. Da presidente del Consiglio, cercherà di ricostruire tra le rovine politiche e finanziarie di Tangentopoli. «In quel deserto, non avevo altra via d’uscita se non quella di rivolgermi alle forze sociali, agli uomini di buona volontà che avevano ancora voglia di lottare...». Nasce così, con Ciampi premier, la “concertazione”. Era semplice, spiegata da lui: «Convocavo Confindustria e sindacati, chiudevo le porte a chiave e dicevo: non si esce da qui finché non abbiamo trovato l’intesa…». È quello che accadde nel luglio del ‘93, quando fu firmato lo storico accordo sul costo del lavoro. «Senza quell’accordo saremmo finiti nuovamente in bancarotta, l’Italia sarebbe esplosa… ». E il boato vero delle bombe mafiose, da Via dei Georgofili, gli arrivò sull’Aurelia, in quella notte nera in cui partì di corsa da Santa Severa, e mentre si precipitava a Palazzo Chigi si interruppero misteriosamente le comunicazioni con Roma: «Per me resta uno dei tanti misteri irrisolti, insieme alla P2: pensai subito a un colpo di Stato…».
Quando Prodi, nel 1996, gli offre il ministero del Tesoro, lui accetta a una sola condizione: l’Italia entra subito nell’Euro, insieme ai Paesi fondatori. Da quel momento in poi Ciampi trasforma la scrivania di Quintino Sella nella sua trincea. Sono gli anni di quello che allora chiamavamo il “ciampismo-leninismo”. Lui girava con un foglietto in tasca: le quotazioni del nostro Btp. «Mi giocai l’osso del collo, perché la scommessa per un Paese con un debito gigantesco come il nostro ruotava tutta intorno alla possibilità di convincere i mercati sulla serietà del nostro impegno: solo in quel modo potevamo ridurre lo spread, e abbattere la spesa…».
La scommessa riuscì. Certo grazie all’eurotassa. Ma anche al patrimonio di credibilità di cui Ciampi godeva ovunque in campo internazionale. Epici i suoi scontri con Hans Tietmeyer, il falco della Bundesbank che non voleva far rientrare la lira nello Sme. Oppure le litigate furibonde con Wim Kok e Gerritt Zalm, gli “olandesi volanti” che non volevano gli spaghetti boys nel club della moneta unica. Li piegò tutti. Helmut Kohl, alla fine, gli concesse l’onore delle armi: «Carlo, senza di te non ce l’avreste mai fatta, e noi ci siamo fidati dell’Italia solo perché c’eri tu...». Lui ringraziò, ma non senza un avviso ai tronfi naviganti: «Attenzione, abbiamo unito la moneta ma non l’Europa. Se non portiamo avanti l’unione politica e istituzionale, questa zoppia prima o poi farà crollare tutto…». Un’altra profezia, che purtroppo si sta avverando.
Al Quirinale Ciampi viene eletto nel ’99, al primo scrutinio. Con un plebiscito che, dopo di lui, otterrà solo Napolitano al secondo mandato. Rivela un tratto pertiniano, umanissimo. Ignoto alla gente comune, ma non a chi lo conosceva bene. Una volta mi chiamò al telefono. Un male incurabile si era portato via mio padre: «Capisco la sua sofferenza. La vita è fatta di questo, e di nient’altro: la famiglia e il lavoro. E rammenti sempre una cosa: la persona che oggi le è mancata un giorno tornerà in un altro modo nei suoi ricordi. Arriverà un momento in cui quei ricordi non le daranno più dolore, ma le faranno tanta, tanta compagnia».
Ma sul Colle la popolarità dell’uomo è direttamente proporzionale alla difficoltà dell’istituzione. Dal 2001, con il nuovo trionfo del Cavaliere, comincia un’altra “notte della Repubblica”. Ciampi fa di tutto per non apparire mai “di parte”, perché la sua unica parte è la Costituzione. «L’Italia ha bisogno di unità nazionale», continua a urlare alla luna, in un crescendo di moniti “palindromi”, buoni per qualunque chiave di lettura.
Nell’era del “berlusconismo da combattimento”, col Cavaliere all’apice della forza che avvia lo sfascio istituzionale e l’assedio a tutti i palazzi del potere, Ciampi compie due grandi capolavori e un grave errore. I due grandi capolavori sono il rinvio alle Camere della Legge Gasparri sulle tv e della Legge Castelli sulla giustizia, considerati atti sediziosi dal Cavaliere e dai suoi bravi, che da quel momento vivranno Ciampi come un avversario da abbattere.
Il grave errore, invece, è la sua firma sullo scandaloso “Porcellum” di Calderoli del 2005, che il centrodestra berlusconiano costruisce con l’unico obiettivo di non far vincere le elezioni all’Unione prodiana. Di quel “cedimento” paghiamo ancora le conseguenze, tra bocciature postume della Consulta e riscritture apocrife tipo Italicum. «Non poteva rinviare alle Camere anche quella?», gli ho chiesto una volta. E lui: «Sì, può darsi. Ma sarebbe stato un giudizio politico, perché allora gli uffici non mi diedero appigli, cioè non mi segnalarono una manifesta illegittimità costituzionale. A quel punto, per un presidente della Repubblica, la sovranità del Parlamento è sacra».
Nell’ultima fase del settennato era sempre più sfiduciato e stanco. Nel 2006, alla vigilia di un voto politico più avvelenato che mai, dal centrosinistra provano ad ipotizzare per lui un secondo mandato. C’era chi ci credeva, ma a me lo disse subito: «Non se ne parla proprio! Primo perché non voglio che l’Italia diventi una monarchia costituzionale, secondo perché se anche volessi non ce la farei, né fisicamente né spiritualmente. Ma lo sanno questi signori che vado per i 90? Glielo confesso: la sera, quando torno nel mio appartamento, l’unico desiderio che ho è sedermi in poltrona a riposare…».
Così ha lasciato il Colle. In punta di piedi, ma tra due ali di folla. Non sconfitto, tutt’altro. Ma certo deluso. Ha fatto appena in tempo a vedersi spegnere la luce d’Europa, offuscata dai populismi grillisti, leghisti e lepenisti. Ha provato a battere un ultimo colpo, alla vigilia del vertice di Ventotene, quando Renzi e la Merkel hanno finto di rimettere insieme i cocci del Vecchio Continente in nome di Altiero Spinelli: «Dobbiamo andare avanti con chi ci sta, dobbiamo abituarci all’idea di fare un’Europa a due velocità...».
Usciti di scena quelli come lui o come Delors, scomparsa la generazione dei leader come Kohl o Mitterrand, non si sa chi potrà raccoglierlo, questo “lascito” politico. L’Italia arranca. L’Europa è un coacervo di egoismi. Una volta, era la tarda primavera del 2000, in un dopo pranzo nella tenuta presidenziale di Castelporziano, Maccanico lo avvertì: «Carletto, rassegnati: questo sciagurato Paese non ti perdonerà mai per averlo portato in Europa...». Lui rispose con una risata dolceamara. Forse aveva ragione, l’amico Tonino. Ma proprio per quel motivo, invece, noi non dovremmo mai smettere di ringraziarlo.
Luigi La Spina per La Stampa
Nella storia del nostro Paese sono stati due i presidenti ex governatori, Einaudi e Ciampi. Il primo ebbe il compito, dopo la dittatura fascista e la guerra perduta, di restituire la fiducia nello Stato e nella sua moneta e di ristabilire quelle condizioni di credibilità finanziaria internazionale che consentirono la ripresa dell’economia. Il secondo, dopo il crollo di quella classe politica che ci governò per cinquant’anni, ebbe il merito, all’inizio di questo secolo, di restituire all’onore degli italiani parole come «patria», «nazione», «bandiera», «inno», cioè la possibilità di essere cittadini fieri della nostra Repubblica.
Il ricorso, per la più importante carica dello Stato, alla nomina di una personalità estranea al ceto politico professionale indica, insieme, il sintomo di una grave crisi del Paese e la consapevolezza di dover ammettere l’incapacità, da parte dei rappresentanti del popolo, di colmare, prima di tutto, quel fossato di fiducia che li divide da coloro che li hanno votati e che impedisce di affrontare quella crisi con qualche speranza di successo.
Transizione difficile
Così è avvenuto per Ciampi, quando divenne il primo presidente del Consiglio non parlamentare, nella difficile transizione tra prima e seconda Repubblica e quando, ministro del Tesoro, ridusse il nostro debito pubblico fino al punto da renderlo accettabile per l’ingresso dell’Italia nella moneta unica europea.
Così è stato per Ciampi quando, in un momento di fortissima contrapposizione tra gli schieramenti politici, solo il suo nome riuscì a coagulare in Parlamento un consenso talmente vasto da farlo eleggere al Quirinale, con una maggioranza amplissima, al primo scrutinio. La discrezionalità con la quale si possono interpretare i compiti del Capo dello Stato nella nostra Repubblica è tale che ogni presidente ha impersonato un modello strettamente legato alla sua cultura, alla sua mentalità, persino al suo carattere e ai suoi umori.
Ciampi l’ha caratterizzato su due fondamenti personali: il rigore morale derivante dalla tradizione risorgimentale e azionista nella quale si riconosceva e l’equilibrio di un uomo di Stato che sa distinguere sempre la privata fede e pratica religiosa dall’assoluta espressione pubblica di laicità. Ecco perchè, senza la minima arroganza magistrale, anzi con grande sobrietà dei modi, è riuscito a lasciare almeno due lezioni importanti alla società italiana, tuttora attualissime e che meriterebbero una seria riflessione da parte della nostra classe dirigente.
Le due lezioni
La prima, appunto, riguarda la volontà e la responsabilità di dirigere un Paese e non di essere diretto dai sondaggi sul Paese. La capacità di guardare agli interessi generali della nazione, quelli di lungo periodo, e di convogliare, con pazienza ma anche con determinazione, verso l’obiettivo la grande maggioranza sia delle forze politiche, sia delle forze sociali. A questo proposito, si può ricordare la straordinaria opera di persuasione compiuta nei confronti dei sindacati che convinse ad accettare vincoli salariali tali da essere compatibili con la ripresa dell’economia e il risanamento delle finanze statali. O la fermezza con la quale, in campo internazionale, pretese il rispetto per un Paese fondatore dell’Europa unita e illustrò le buone ragioni, anche finanziarie, che dovevano e potevano farlo ammettere nel club della moneta unica.
La seconda lezione, forse ancora più importante in un momento come l’attuale, riguarda l’assolutamente inaspettata popolarità di un uomo che non aveva, e non voleva avere, nessuna indulgenza populista. Ciampi, durante il suo settennato presidenziale, riscosse, gradualmente ma costantemente, indici di fiducia altissimi da parte degli italiani. Eppure, il suo linguaggio non si prestava per nulla a solleticare gli umori della platea e i suoi atteggiamenti, pubblici e privati, erano improntati al riserbo e alla discrezione.
Rispetto e ammirazione
Il suo piccolo «laico» miracolo di popolarità si compì solo in virtù del sentimento di rispetto e di ammirazione che la sua figura di «servitore dello Stato» suscitò tra i suoi concittadini. Fu solo attraverso questa fiducia e questi consensi, infatti, che Ciampi riuscì a riammettere nel discorso pubblico, ma soprattutto nel cuore degli italiani, parole e concetti come patria e bandiera, per oltre cinquant’anni sequestrati e infamati dal marchio del nazionalismo dittatoriale fascista. Una operazione mirabile di recupero morale, culturale e politico, credibile proprio perché la sua figura di europeista convinto, erede della mazziniana storia risorgimentale, riuscì a spazzar via qualsiasi sospetto di revanscismo patriottardo. Toccò, poi, al suo successore, Giorgio Napolitano, sancire, attraverso la celebrazione dei centocinquant’anni dell’Unità nazionale, avvenuta nel 2011, l’avvenuto completamento del percorso avviato così coraggiosamente da Ciampi verso il riconoscimento dell’orgoglio di essere italiani. Ma toccherà agli italiani poterlo meritare.
Filippo Ceccarelli per la Repubblica
È triste cominciare con un dubbio, ma forse erano ormai anni che l’Italia, questa Italia, non meritava Carlo Azeglio Ciampi; e se oggi lo piange, è un po’ anche se stessa che piange, la sua virtù dissipata, dispersa, irriconoscibile.
Lo riconosceva amaramente negli ultimi anni della sua vita. Eppure non era un tipo facile agli smarrimenti. Anzi, tra i diversi statisti d’epoca repubblicana, lo si può considerare fra i più tosti; e in questo vale la testimonianza di Theo Weigel, il mastino delle finanze germaniche che ai tempi della battaglia per l’euro, dinanzi a un ristretto consesso di semidei se ne uscì: «Io vengo presentato come un duro contro l’Italia e il suo ingresso. Ma qui tra noi, se c’è uno duro, questo è Carlo».
Giova anche ricordare che tale coriacea risolutezza non aveva bisogno di voce tonante o pugni sul tavolo. Tutt’altro. Ciampi aveva l’aspetto di un anziano e simpatico signore con gli occhi azzurri, molto vivi; eppure, insieme alla logica spedita e all’affidabilità del giudizio, quella pacata energia evocavano di primo acchitto in lui la presenza della più rara “auctoritas”.
Salvata l’economia dal baratro, nel 1993, Ciampi uscì perfino sollevato da Palazzo Chigi e qualche tempo dopo, invitato a un convegno economico, venne fermato all’entrata: «Scusi, lei ha l’invito?». Non l’avevano riconosciuto – e per estremo paradosso rimane questa la vera gloria toccata in sorte a un vero uomo delle istituzioni in un tempo di sgommate, codazzi, grovigli di fotografi e indecorosa visibilità.
Mai Ciampi, neanche per sbaglio, ha partecipato a un talk-show; e anzi una volta, da presidente della Repubblica, si seccò parecchio perché il premier Berlusconi aveva esposto dei provvedimenti a Porta a porta prima che in Parlamento. Più o meno allora, il giorno del suo compleanno trovò centinaia e centinaia di persone in piazza del Quirinale: «Prima ho chiesto di verificare che non ci fossero telecamere. Non c’erano. Allora con Franca ci siamo detti che che non potevamo far finta di niente e siamo usciti dal palazzo per salutare».
Mai isteria, mai euforia, mai megalomania, mai buffoneria, mai smania di protagonismo, né cedimenti all’improvvisazione o al pettegolezzo. A tale proposito si può evocare, per certi versi, la radice austera e l’abito mentale della scuola azionista. Ma è pure vero che Ciampi si sforzò anche di entrare in sintonia con il suo tempo. Così, specie nel settennato, strinse volentieri la mano a comici e premiò sportivi, si intrattenne divertito sulla “livornesità” («quel nostro caro e terribile ‘deh’») talvolta arrivando a ingaggiare gustosi siparietti con donna Franca, “Sua Franchezza”. «Vedete – fu costretto ad ammettere un giorno – per decenni ho parlato poco, credevo che questa fosse la mia natura. Sbagliavo, forse non mi conoscevo bene». Ma sempre rimase al di là della commedia e del melodramma su cui di regola si modulano, in un carosello di emozioni vere e fasulle, le vicissitudini nazionali. Se c’è un’immagine o un simbolo che di lui e del suo tempo può restare impresso nel costume, ma anche nell’estetica di un comando tutto sommato spoglio e silenzioso, è quel suo pattino su cui, la mattina presto, dall’Associazione Velica Motonautica di Santa Severa prendeva il largo, in solitudine, verso il Castello.
Nessun tecnocrate ha dovuto remare e remare per conquistarsi se non la benevolenza, almeno la tregua di un mondo politico in pieno sconquasso. Nessun altro Capo di Stato, forse neppure Einaudi, ha poi esercitato con maggiore discrezione e naturale solennità il potere che gli assegnava la Costituzione.
Il non aver mai avuto un partito alle spalle senz’altro lo aiutò, come del resto il fatto che per ben due volte fu chiamato a riparare danni come figura provvidenziale, “riserva della Repubblica” per antonomasia. Basti qui ricordare quanto gli confidò il suo predecessore Scalfaro nel giorno di Natale del 1993: «Stamani in chiesa ho ringraziato per averti conosciuto, grazie per quello che hai fatto, stai facendo e farai». Così come il suo successore Napolitano, allora alla guida tempestosa di Montecitorio, si sentì sollevato per la sua presenza: «Da quando sei arrivato tu è scoppiata la pace».
Da presidente del Consiglio fronteggiò il crollo dei partiti di massa, la spaventosa crisi dell’economia, i misteriosi attentati forse non solo mafiosi, l’avventura somala. Al Tesoro battagliò con le diffidenze tedesche per strappare l’euro, però in Consiglio dei ministri fece mettere per iscritto il suo no alla legge sulla parità che penalizzava la scuola pubblica a vantaggio della privata.
Come presidente della Repubblica dovette vedersela con la guerra americana in Iraq, cui era fermamente contrario, e con le forzature e la malagrazia istituzionale del berlusconismo vittorioso e scalpitante. Non fu facile resistere alle pressioni di Bush, come pure rinviare alle Camere la legge Gasparri dopo le minacce di guerra dell’allora premier. Sottile, ma convincente la spiegazione che Giuseppe De Rita ha dato della grandezza del ruolo presidenziale di Ciampi: «Ha lasciato alle diversità di esprimersi. Le ha lasciate esplodere tutte. Non ha messo la sua persona sopra la sua carica ».
In un interessante raccolta di annotazioni diaristiche e di memoria (“Contro scettici e disfattisti”, a cura di Umberto Gentiloni, Laterza), con stile scarno e implicita ironia sono ricostruite le burrasche con Berlu- sconi: “In modo concitato e convulso”, per dire, quest’ultimo accusa il Quirinale di fare scelte “insensate”, al che “il presidente Ciampi non presta alcuna attenzione alle dichiarazioni del Presidente del Consiglio” e via.
Significativo del personaggio, sempre in quegli anni, anche il modo in cui si presentò a Bossi, che l’aveva attaccato per una presunta adesione massonica: «Onorevole - questo l’approccio di Ciampi - piacere di conoscerla. Questo è il nostro primo incontro. Sta in lei fare in modo che non sia l’ultimo». A suo ulteriore merito, con scelta necessariamente arbitraria, si possono aggiungere: l’illimita pazienza dinanzi alle provocazioni, anche pesanti, di Cossiga; la difesa della lingua italiana contro le mode anglofone (ne fece le spese la “devolution”); la condanna delle violenze poliziesche al G8 di Genova; infine la telefonata in diretta tv per far smettere uno sciopero della sete di Pannella.
In definitiva, e non solo sul piano dell’immaginario, viene da pensare che Ciampi svolse un ruolo di formidabile resistenza in un paese che andava peggiorando. Ma non tutto funzionò come lui avrebbe voluto. Fu un suo grande sforzo quello trasmettere una nuova idea di patriottismo, a partire dal Risorgimento, per cui si mise a viaggiare, il paese gli tributò onori e applausi, le scolaresche cantarono l’inno, i lavoratori agitarono il tricolore. Ma nella sostanza la democrazia seguitava a girare a vuoto e l’Italia, intesa come piazza e come Palazzo, continuò a perdersi dietro le sue voglie e le sue magagne. E Ciampi era solo, o meglio da solo Ciampi non bastava, tanto più in un paese che sempre più, nella sua stragrande maggioranza, considerava la memoria come un optional e il passato un ingombrante residuato di cui liberarsi.
Forse in questo il presidente rivisse l’antico fallimento del Partito d’Azione. Così mentre ormai dilagava la crisi e il potere si involtolava nei suoi eterni vizi, i penultimi e ultimi pensieri di Ciampi suonano amari: «Gli italiani – dice - sono presi da una strana cupidigia di servitù. E più si straccia il tessuto istituzionale, più loro chiedono di essere servi». E anche: «La classe dirigente ha smarrito i punti di riferimento e manca l’esempio». Le solite ruberie, le consuete cialtronate, le abituali furbizie, il vecchio cinismo e la rinverdita vanità dei capi; e davvero, per quanto appaia bizzarro, ci si trova a pensare con sgomento che non c’era, né poteva più esserci posto per Carlo Azeglio Ciampi nell’Italia del populismo e del tifo violento, dei comici aggressivi e di quel senatore che somministra a tutti, con pieno successo di pubblico, «un consiglio d’amico: fatte li cazzi tuoi».
Stefano Lepri per La Stampa
E pensare che quando Carlo Azeglio Ciampi diventò governatore della Banca d’Italia, nell’ottobre del 1979, autorevoli commentatori fecero trasparire che lo ritenevano un personaggio scialbo. Non era, per formazione, un economista. Eppure più di tutti gli altri suoi predecessori e successori ha contribuito a rendere la Banca d’Italia quella che oggi conosciamo: un’istituzione moderna di cui l’Italia può vantarsi nel mondo, capace di consigliare bene i governi come di dirgli di no all’occorrenza.
Successione difficile
Non era facile succedere a Paolo Baffi, personaggio di grande dirittura morale e studioso apprezzato, che manovre ispirate dalla politica avevano indotto a dimettersi. A modo suo, senza mettersi in mostra, senza alzare la voce, Ciampi si impegnò subito a dimostrare che la Banca d’Italia non piegava la schiena; talvolta, aggirando gli ostacoli con l’astuzia. Rivelò la capacità di far lavorare insieme persone di idee e caratteri diversi. Trattò sempre con cortesia Lamberto Dini, l’esterno messogli al fianco dai politici come direttore generale, senza mai smettere di dargli del lei.
All’inizio pochi notarono che l’autonomia della Banca d’Italia cresceva. Baffi era parso scettico che l’economia italiana potesse affrontare sfide innovative, tanto da aver sconsigliato l’ingresso della lira nel Sistema monetario europeo. Ciampi al contrario cominciò subito ad esaltare l’integrazione dell’Europa, definendola il naturale sviluppo del Risorgimento italiano (forse gli sarebbe piaciuto dire anche della Resistenza, ma sarebbe parsa un’affermazione troppo politica in bocca a un governatore).
Lotta contro l’inflazione
Soprattutto, con Ciampi alla guida la Banca d’Italia si allineò subito alle altre banche centrali del mondo nell’offensiva contro l’inflazione, aperta negli Stati Uniti da Paul Volcker. Per il nostro Paese fu una vera svolta, poco gradita ai politici, molto innovativa rispetto alle scelte sia di Baffi sia, prima ancora, di Guido Carli. Più in là, opponendosi agli industriali che periodicamente chiedevano di svalutare la lira per un facile recupero di competitività, Ciampi suggerì ai governi di limitare al minimo gli aggiustamenti di cambio della nostra moneta rispetto al marco tedesco.
Nel 1981, grazie all’allora ministro del Tesoro Nino Andreatta, senza che altri membri del governo si accorgessero della portata della decisione, il cosiddetto «divorzio» tra Banca d’Italia e Tesoro toglieva alla politica la rete di sicurezza sul debito pubblico. Se il deficit dello Stato saliva, i mercati lo sanzionavano facendo pagare al Tesoro interessi più alti. Fu così che cominciammo ad avere una banca centrale capace di governare la moneta in autonomia dal potere politico, come in tutti i grandi Paesi democratici.
Il Banco Ambrosiano
Baffi era stato colpito perché non aveva chiuso gli occhi di fronte a certi intrecci tra malaffare politico e finanza. Ciampi andò addirittura oltre, senza farsi intimidire né dalla Loggia P2 né dalle connessioni con il Vaticano: sotto di lui gli ispettori della Vigilanza della Banca d’Italia, anche con un avventuroso viaggio in Perù, misero a nudo le magagne del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, trasmettendo le carte alla magistratura. Si smetteva di lavare in casa i panni sporchi del sistema bancario.
Bettino Craxi, che dell’indipendenza della banca centrale proprio non capiva il senso, avrebbe sostituito volentieri quel governatore troppo poco condiscendente verso il potere politico; non ci riuscì. Eppure, Ciampi non stava attaccato alla sedia; in più occasioni offrì di dimettersi qualora il governo in carica lo ritenesse necessario. Nel suo momento peggiore, l’autunno del 1992, dopo che la lira fu costretta a uscire dal Sistema monetario europeo, voleva andarsene sul serio. L’idea era stata quella del «pungolo». Un cambio della lira relativamente stabile, non svalutato di continuo, secondo Ciampi avrebbe indotto le imprese a ristrutturarsi e a modernizzarsi, i sindacati a comprendere gli effetti dannosi di rivendicazioni salariali eccessive. Ma la politica aveva continuato a sbagliare, creando inflazione con una debordante spesa pubblica in deficit; finché, indebolita dagli scandali di Tangentopoli, aveva reagito troppo tardi ai pericoli da lui indicati.
Quel difficile 1992
Il contraccolpo fu tremendo. Dall’interno della Banca d’Italia Dini faceva sapere di non aver condiviso la difesa fino all’ultimo del cambio della lira, con la quale si erano del tutto esaurite le riserve valutarie dell’Italia. Fu un brutto periodo per lui. Poco più di un mese dopo, a fine ottobre ’92, gli toccò segnalare che il cambio libero della lira non sarebbe stato più in alcun modo difeso, anzi che lo si sarebbe lasciato cadere allo scopo di riacquistare competitività. Di nuovo mise a disposizione il suo mandato: il presidente del consiglio Giuliano Amato lo prese sul serio ma lo pregò di restare finché l’economia italiana era in pericolo. Come si sa, dopo qualche mese le cose andarono diversamente: Ciampi lasciò la Banca, ma per sostituire Amato a Palazzo Chigi.
Gli eredi
Erano stati allevati da Ciampi tutti i dirigenti che Mario Draghi dal 2006 impegnò a ritrovare il prestigio perduto nel periodo Fazio. Al vertice oggi ci sono persone che Ciampi ha apprezzato e promosso, e che gli erano rimaste affezionate, a cominciare da Ignazio Visco nominato da lui capo ufficio studi nel 1990.
Ferruccio de Bortoli per il Corriere della Sera
«È la migliore intervista che ho fatto». «Quale presidente? Non l’ho letta». «E forse non la leggerà mai». Aveva l’aria quasi divertita Ciampi nel suo ufficio di senatore a vita, pochi mesi dopo aver lasciato il Quirinale. Quella mattina era soddisfatto di aver portato a termine un compito gravoso: rilasciare all’archivio di Stato un resoconto dettagliato, con tutti i documenti e gli appunti personali, dei suoi sette anni al Colle. L’etica repubblicana dell’ex governatore della Banca d’Italia (dal ‘79 al ‘93), diventato politico per necessità (del Paese, non sua), presidente della Repubblica dal ‘99 al 2006, imponeva l’assolvimento scrupoloso di ogni incombenza, anche la più piccola. Con meticolosità calvinista, acribia maniacale. La sindrome della scrivania vuota la sera, pulita, senza cose da evadere. In banca, una volta, si faceva così. In estrema sintesi: senso del dovere e grande rispetto delle istituzioni. Istituzioni che Ciampi ha servito, sentendosene onorato, e mai occupato con sufficienza o persino con disprezzo come gli capitò di notare negli anni in cui dovette contenere il berlusconismo più rampante e anche un certo pressappochismo della sinistra di governo. Una disciplina quasi militare la sua, esercitata alla scuola della Banca d’Italia. Palazzo Koch era (ed è) una roccaforte del rigore quasi estranea al costume italiano, un’eccellenza nazionale che suscita più invidia e sospetti che ammirazione e gratitudine. Aveva un metodo di lavoro prussiano. «Mi concentro su una cosa alla volta, con calma».
La Banca d’Italia è stata per lui la seconda famiglia, il luogo da amare, la stanza del potere discreto che si esercita con la moral suasion, dove il tratto fermo e gentile è l’arma di governo più efficace. Una prassi che non conosce le durezze espressive del comando. Non c’è bisogno di gridare per farsi obbedire, né di battere i pugni sul tavolo. L’autorevolezza conta più delle amicizie influenti; le prove di serietà sono il migliore biglietto da visita. Non che Ciampi non avesse le sue durezze. Ricordo una sua telefonata particolarmente piccata quando il Corriere scrisse che non sarebbe succeduto come capo del governo a Prodi nel ‘98. Ci sperava e pare avesse già scritto il suo discorso.
In uno dei tanti colloqui che avemmo, mi raccontò che negli anni più difficili per l’economia italiana, nei momenti più bui delle responsabilità a Palazzo Chigi e in via XX Settembre, la sede del ministero dell’Economia, teneva in tasca un biglietto con il grafico della differenza dei tassi italiani rispetto a quelli tedeschi. Quel divario in termini di costo del denaro sarebbe diventato sinistramente famoso con la parola spread. Prima della moneta unica aveva raggiunto anche i seicento punti base, un disastro per il servizio del debito italiano. Ciampi misurava i successi del governo con la riduzione di quel divario. Teneva costantemente sotto osservazione il grafico come fosse una pagella inappellabile. E non perché fosse ossessionato dal giudizio dei mercati e dal loro potere. Ma perché einaudianamente, da buon padre di famiglia, in questo caso molto allargata, faceva di conto. Oggi lo si fa assai meno. Ed era consapevole che senza una buona reputazione, senza dimostrare serietà di comportamento non si sarebbe andati da nessuna parte. L’Italia si sarebbe piegata sotto il peso dei propri difetti oltre che per il fardello del debito. Il suo governo uscì dalle secche pericolose della speculazione, consolidò il risanamento avviato da Amato dopo la crisi valutaria del ‘92 che coincise anche con l’attacco della mafia allo Stato. Una tempesta valutaria che si scatenò quando, da governatore della Banca d’Italia, ricevette la telefonata più drammatica della sua vita. La Bundesbank lo avvertiva che non avrebbe più sostenuto il cambio della lira, difesa già costata un’emorragia di riserve.
Negli anni in cui fu, nei governi Prodi e D’Alema, alla guida dell’economia vinse il sospetto degli alleati, in particolare i tedeschi, suscitò l’ammirazione di «falchi» come il ministro delle Finanze di Berlino Theo Waigel e, persino, del suo terribile collega olandese Gerrit Zalm. Il suo credito personale è stato tra i fattori di successo della rincorsa italiana per entrare nella moneta unica. E non dimenticheremo mai la sua espressione soddisfatta ed emozionata quando mostrò, fresco di conio, il primo euro uscito dalla Zecca. Era la vittoria di un ideale, nato tra le macerie della guerra e della Resistenza, combattute con onore, e coltivato nel sogno di Ventotene, nelle suggestioni azioniste e nell’entusiasmo repubblicano. L’euro come moneta di pace. Immaginiamo la sofferenza intima che un grande europeista come lui deve avere provato nell’assistere al lento e inesorabile indebolimento dell’Unione Europea, prigioniera degli egoismi nazionali. E il dispiacere nel vedere che i fantasmi del passato e i veleni del totalitarismo combattuti dalla sua generazione ricomparivano un po’ ovunque, specie in quell’Est che deve all’Unione Europea libertà e benessere.
Un italiano per bene, orgoglioso di aver servito il suo Paese, è stato — e lo sarà ancora nel posto che la Storia gli riserverà — il simbolo della serietà e della competenza. Merce rara, diciamolo. Il suo settennato ha avuto come obiettivo, quasi una missione, quello di rianimare il concetto di patria, di restituire agli italiani l’orgoglio dell’appartenenza, la gioia di cantare l’inno. Compito non facile in un Paese in cui durante la Guerra fredda c’era chi di patrie ne aveva due e il tricolore era appannaggio politico solo della destra. Ricordo che in un pranzo al Quirinale, appena insediato nel ‘99, mi disse che avrebbe voluto visitare tutte le province italiane. Impegno che rispettò quasi fosse un fioretto laico. In quell’occasione il suo consigliere Arrigo Levi fece firmare a tutti i presenti il menù e promise che li avrebbe raccolti per i successivi sette anni. «Si rispettano tutti gli impegni, anche i più piccoli». Sorridemmo. La tenacia di Levi venne premiata, come quella del presidente. Tra le sue eredità, l’organizzazione delle celebrazioni nel 2011 del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. L’occasione per celebrare il ritorno del senso di patria che per lui non era morto l’8 settembre del 1943. Un testimone raccolto, splendidamente, dal suo successore Napolitano. Quel marzo del 2011 rimane nella memoria collettiva degli italiani, al pari di Torino 1961, un momento significativo della costruzione identitaria nazionale.
L’economista Ciampi, che era laureato in Lettere, il banchiere centrale più mitteleuropeo che romano, ha sempre avuto per la politica un grande rispetto, pur tenendosi a distanza. Ne temeva le insidie anche se ne sentiva il fascino che a volte per un tecnico può essere irresistibile. Non coltivò però il sogno di improbabili discese in campo, quando dovette preparare con il suo governo le elezioni che nel ‘94 videro il primo trionfo di Berlusconi. Rinunciò al comizio finale che per le regole delle tribune politiche spetta al presidente del Consiglio in carica. Si ritirò in buon ordine in un piccolo ufficio messogli a disposizione dalla Banca d’Italia. Non sperava di tornare al governo e nemmeno di andare al Quirinale. Il Corriere , in un editoriale a firma di chi scrive, lo propose nella primavera del ‘99 come il candidato più autorevole. Ciampi chiamò la mattina seguente. «Grazie direttore, ma non so se mi ha fatto un favore». Poche settimane dopo l’accordo sul suo nome fu trovato con un consenso ampio. E la nomina avvenne al primo scrutinio. In un clima di concordia nazionale del quale oggi abbiamo profonda nostalgia.
Eugenio Scalfari per la Repubblica
Non posso nascondere che nel momento in cui prendo in mano la penna per ricordare Carlo Azeglio Ciampi sono molto commosso: siamo stati amici per cinquantaquattro anni, amici intimi e fraterni quale che fosse il suo ruolo: capo dell’Ufficio studi della Banca d’Italia e poi, dopo una rapida carriera, governatore. E poi primo ministro di un governo tecnico che durò un anno, poi ministro del Tesoro con Prodi e con D’Alema, poi presidente della Repubblica e poi senatore a vita, oltre ad essere il padre degli italiani.
In tutta questa lunga vita, terminata poche ore fa, ha perseguito tutti i suoi affetti privati con sua moglie Franca, i suoi figli e una schiera di nipoti e pronipoti. Aveva una componente paternale molto intensa nel suo carattere, che lo ha distinto da tutti gli altri.
Padre degli italiani non per ragioni politiche ma caratteriali e sentimentali. Se debbo esaminare tra i presidenti della Repubblica che l’hanno preceduto e seguito non trovo alcuno con questa caratteristica. Forse Sandro Pertini, ma la sua paternità era molto diversa da quella di Ciampi: Pertini era un padre di combattimento, Ciampi un padre di pace, profondamente laico nei suoi ruoli pubblici ma profondamente cattolico nella sfera privata.
In politica non fece mai il tifo per questa o quella parte poiché la dominante sempre presente in tutti i suoi ruoli pubblici fu sempre l’interesse generale e quello per i poveri, i deboli, gli esclusi. Non a caso da giovane si iscrisse alla Cgil. Nacque a Livorno, dove sarà sepolto lunedì prossimo. Lì visse e studiò fino a circa trent’anni. Prese due lauree, una in Lettere l’altra in Giurisprudenza ed anche quella doppia scelta non fu casuale: amava la cultura e la legalità ed entrambe hanno alimentato la sua vita.
Il nostro rapporto di amicizia nacque dall’incontro che avvenne nel 1962 nello studio di Guido Carli. Conoscevo Guido da molti anni ma quella conoscenza diventò amicizia fraterna un paio di anni dopo la sua nomina a Governatore della Banca d’Italia nel 1960.
Qualcuno dirà che non gli è mai capitato di incontrare due uomini così diversi tra loro: tanto Ciampi era dolce nei sentimenti, tanto Carli era imperativo; tanto l’uno era paterno nella sua dolcezza, tanto l’altro era maschile e affascinante nella sua imperatività. Ma ciò che li legava entrambi da una profonda stima reciproca era il senso dell’interesse generale e della legalità e lo si vide paragonando le loro relazioni annuali da governatori: Carli denunciava quelle che lui chiamava “le arciconfraternite del potere”, Ciampi non amava denunciare ma esponeva quello che a suo giudizio era non solo il bene comune ma la necessità di tener sempre presente i bisogni dei ceti più poveri e più deboli. Carli promosse con la sua politica il cosiddetto “miracolo italiano” che portò al massimo gli investimenti, la produttività e l’occupazione; Ciampi fu l’autore dell’ingresso dell’Italia nella moneta comune.
Dopo il suo anno da presidente del Consiglio accettò la carica di ministro del Tesoro nel governo Prodi. La moneta comune europea, dopo ampi studi dei governi interessati, aveva come fautore principale la Germania. Prodi era anche lui favorevole ma preferiva aspettare e verificare che quel nuovo strumento funzionasse. Nell’autunno del 1996 partirono per un incontro a Madrid con il governo spagnolo e il principale argomento che esaminarono fu appunto la moneta comune europea. La Spagna si dichiarò favorevole rinviando però la sua adesione di qualche anno.
Nel viaggio di ritorno a Roma Ciampi mise tutta la sua logica economica e politica sostenendo che un Paese fondatore della Comunità europea doveva essere tra i fondatori della moneta comune. Prodi si convinse e incaricò lui di incontrare il Cancelliere tedesco e comunicargli la nostra adesione immediata e così avvenne. L’incontro con Helmut Kohl non fu soltanto una comunicazione di adesione dell’Italia a quello che sarebbe stato chiamato l’euro, ma anche un confronto sulla politica monetaria ed economica della quale l’euro sarebbe stato lo strumento per promuovere la crescita, l’occupazione ed anche il rafforzamento dell’Europa verso una struttura di graduale unità politica oltreché economica. Questo fu uno dei tanti risultati di Ciampi che va ascritto a principale merito dell’opera sua.
Consentitemi ora di raccontare come nacque la nostra amicizia. Era, come ho già detto, il 1962 ed io stavo discutendo con Carli sulla situazione economica del nostro Paese, sui malanni della nostra economia e del nostro capitalismo “arciconfraternita del potere”. L’economia italiana era allora dominata da alcune grandi aziende pubbliche, tra le quali l’Eni e l’Italsider, ed altre private: la Fiat, la Edison di Valerio, la Montecatini di Faina, la Pirelli, l’Olivetti, la Sade. Più o meno i poteri erano questi, molti dei quali aderivano ad una sorta di salotto buono che era la Società Bastogi.
Carli aveva invitato a partecipare a questa nostra conversazione (che avveniva almeno una volta al mese) il capo dell’Ufficio studi che era appunto Ciampi che io incontrai in quell’occasione.
Lo studio di Carli era una piccola stanza con appeso alla parete dietro la scrivania del Governatore un quadro che rappresentava il corpo nudo di San Sebastiano trafitto dalle frecce d’un gruppo di torturatori. Lo ricordo perché era diventato simbolico e quindi celebre.
La discussione tra noi tre fu lunga e Ciampi fu molto concreto nel suggerire i modi d’una politica espansiva e antimonopolistica. Alla fine Guido mi disse: «Forse è bene che tu venga più spesso qui da noi e se io fossi occupato potresti andare nell’ufficio di Ciampi ed esaminare con lui le questioni che ti stanno a cuore ». Ciampi si dimostrò contento e mi propose d’andare subito nel suo ufficio così avrei visto qual era la strada per arrivarci. Io ero ormai di casa alla Banca d’Italia e i commessi mi lasciavano piena libertà di movimento.
Così cominciò il nostro rapporto con incontri quasi settimanali che poi trasformavo in articoli sull’Espresso che dirigevo. Ma il rapporto con Carlo diventò presto fraterno, ogni tanto cenavamo nelle nostre case, le mogli si conobbero, insomma diventò una specie di famiglia.
Debbo dire che questo rapporto continuò e si accrebbe quando Carlo ascese al Quirinale. Ci vedevamo alla Vetrata e perfino l’estate in Sardegna. Io avevo allora una seconda moglie essendo rimasto vedovo e con lei avevamo una piccola casa a Porto Rafael, di fronte all’isola della Maddalena dove Carlo e la sua famiglia passavano una ventina di giorni in agosto nella casa che era sede del comando della Marina. I Ciampi ci invitavano spesso a cena con la partecipazione dell’ammiraglio Biraghi che era capo di Stato maggiore. Mandavano al molo di Porto Rafael una scialuppa con due marinai che ci portava alla Maddalena dove facevamo arrivare mezzanotte. Lì nacque con Franca Ciampi una profonda amicizia che dura tuttora. Lei è di poche settimane più giovane di Carlo e gli è stata accanto sempre, per sessantasette anni. Oggi l’ha visto morire, ma era consapevole che stava per accadere.
Avrei ancora tanto da raccontare su Ciampi governatore, ministro, presidente del Consiglio e presidente della Repubblica, ma soprattutto su Ciampi amico fraterno. Ricordo ancora le visite che gli feci quando lui era già molto malato ma, avendo una residenza a Palazzo Giustiniani come tutti gli altri ex presidenti della Repubblica, spesso ci si faceva portare. Lì aveva una specie di piccolo letto nel quale si sistemava con le gambe distese e il torso e il volto sollevati. Così parlava e ascoltava. Spesso gli altri “emeriti” (termine che lui non amava affatto) venivano a trovarlo o lui andava da loro. Anche lì facemmo tante e lunghe chiacchierate. Lui aveva un libro di appunti, una sorta di diario quotidiano, che in parte è stato pubblicato e che credo meriterebbe d’essere ora ristampato.
Concludo: se ne è andato un Padre della patria nella vera accezione del termine. Per me se ne è andato un pezzo dell’anima mia.
Guido Gentili per Il Sole 24 Ore
Livornese sì ma atipico, schivo, Carlo Azeglio Ciampi non era un “temerario”, esattamente come ha scritto di lui il suo strettissimo collaboratore, prima a Palazzo Chigi e poi al Quirinale, Paolo Peluffo.
Fosse dipeso solo dalla sua persona, mai sarebbe diventato Governatore della Banca d’Italia (1979, a 59 anni di cui 33 trascorsi alla banca centrale), Presidente del Consiglio (1993, primo non politico), Presidente della Repubblica (1999). «Riluttavo, quando mi fu chiesto di assumere l’incarico di Governatore. Guido Carli mi chiamò diverse volte nel suo studio ed insisteva perché accettassi. Io avevo visto lui fare il Governatore, eravamo molti diversi, e gli chiedevo: come avrei potuto farlo? La sua risposta era che il Paese e la Banca avevano bisogno di un Governatore diverso. Ma non eravamo diversi – è ancora Ciampi a spiegare, poco dopo la scomparsa di Carli, nel 1993- nel modo di intendere la Banca e nella volontà di preservarne in primo luogo l’integrità morale, la capacità operativa, non quale corpo monocratico borioso e disdegnoso, ma come strumento efficiente al servizio del Paese».
Del resto, anche il Governatore che l’aveva preceduto, Paolo Baffi, aveva suggerito il nome di Ciampi. Il suo diario è preciso. «23 marzo 1979. Alle 8,15 vado da Giulio Andreotti (allora presidente del Consiglio, ndr) e gli faccio rapporto sui problemi che mi angustiano (Baffi e il vice direttore generale di Bankitalia Mario Sarcinelli fatti ingiustamente bersaglio di pressioni politico-giornalistiche e di un’inchiesta della magistratura che si rivelerà infondata, ndr). Gli manifesto l’intenzione di ritirarmi non oltre il 19 agosto, gli faccio i nomi dei possibili successori, primo fra tutti Ciampi. Prende nota diligentemente e non si oppone…»
Ciampi era direttore generale della Banca d’Italia e assieme al vice Sarcinelli, a febbraio di quel tremendo 1979 che vedrà a luglio l’assassinio di Giorgio Ambrosoli, liquidatore della Banca privata di Michele Sindona, aveva deposto come testimone, al tribunale di Milano, sulle pressioni ricevute riguardo il caso Sindona. Quel livornese schivo è sconosciuto al grande pubblico, che molti anni dopo - eletto Presidente della Repubblica - gli riserverà indici record di gradimento e di popolarità. Ciampi non è un “temerario”, non è un economista ed è un appassionato lettore di Goethe. Nella Banca, a partire dal 1946, ha passato oltre trent’anni e salito tutti i gradini della carriera, passando per la strategica guida dell’Ufficio studi. Due lauree in lettere (alla Normale di Pisa) e giurisprudenza e un master, diciamo così, alla scuola del filosofo, e amico, Guido Calogero (conosciuto nell’inverno 1943-1944 in Abruzzo, dove si era formata una piccola comunità di alleati fuggiti dai campi di concentramento e di renitenti alla leva della Repubblica fascista di Salò), Ciampi è in realtà un osso duro cui non manca acume politico e capacità di manovra. Non è un frenatore ma è guardingo. Dotato di grande capacità di ascolto, sa farsi valere nei momenti che contano. E ha forte il senso dell’istituzione pubblica che dirige. Ai funerali di Ambrosoli le istituzioni della Repubblica non ci sono, la Banca d’Italia sì. In silenzio, lontano dai riflettori mediatici, Ciampi prepara la linea di difesa della banca centrale, ferita dal caso Baffi-Sarcinelli. Per la carica di Governatore suggerisce al ministro del Tesoro Pandolfi il nome di Bruno Visentini, allora presidente di Assonime. In Banca c’è chi teme il peggio, cioè una nomina politica ostile. Non andrà così, la diga regge: l’8 ottobre 1979 Ciampi è il nuovo Governatore.
Molti anni dopo, sarà Guido Carli, ultimo ministro del Tesoro a firmare un decreto per la modifica del tasso di sconto (toccherà poi alla sola Banca d’Italia decidere e infine questa lascerà a sua volta il passo alla Banca Centrale Europea) a tracciare un bilancio. «Ciampi ha ricollocato la banca centrale nel ruolo di garante della disinflazione, ne ha fatto il motore propulsivo del processo che ha condotto il sistema creditizio ad un livello di maggiore concorrenza, ne ha fatto il centro di un incessante azione di sprone e di ammonimento per il mondo politico».
Ha fatto tutto questo, certo. Che è molto di più se si guardano in faccia le cronache di quegli anni. Il crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, assassinato a Londra sotto il ponte dei Frati Neri, che si trascina dietro il caso Ior-Vaticano. Un’inflazione oltre il 20%. La deflagrazione della finanza pubblica. Il venerdi nero della lira del 1985, quando un enorme acquisto di dollari dell’Eni fa schizzare il cambio della lira a quota 2200 (il premier Bettino Craxi lo attacca, Ciampi consegna al ministro del Tesoro Giovanni Goria le dimissioni, ma di nuovo la diga reggerà). La partita delle nomine bancarie nelle Casse di Risparmio, per la quale il Governatore, nelle lunghe notti lottizzatorie del Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio (Cicr) aveva lo scomodo onere di presentare le “terne” dei candidati sulle quali la politica doveva scegliere (prima della riforma delle Casse voluta proprio da Ciampi). Il “divorzio” monetario tra Tesoro e Banca d’Italia. La battaglia (alla fine perdente e che gli attirò molte critiche) del 1992, l’anno delle stragi Falcone e Borsellino e dello scoppio di Tangentopoli, a difesa della moneta italiana attaccata dalla speculazione e svalutata al termine di un lungo calvario finanziario.
Ciampi non avrebbe mai scommesso sulla sua nomina a Presidente del Consiglio, così come non avrebbe immaginato, dopo l’esperienza al ministero del Tesoro, di salire sul Colle politico più alto, quello del Quirinale. Eppure accadde, perché nel 1993 il sistema politico e parlamentare era franato sotto i colpi di Tangentopoli. E c’era bisogno di un governo d’emergenza guidato da un “tecnico” autorevole, e non da un professionista della politica, che mettesse in cantiere una nuova legge elettorale e portasse, nel migliore modo possibile, il Paese alle elezioni del 1994. Un anno di lavoro, un grande accordo sulla politica dei redditi in chiave antinflazionistica, una nuova spinta verso l’Europa dopo gli accordi di Maastricht. Chi, se non Ciampi, che da Governatore aveva già lanciato l’idea di una nuova Costituzione economica e l’obbligo del pareggio di bilancio, avrebbe potuto in dodici mesi di governo rimettere l’Italia sui binari della fiducia e della credibilità? Risposta scontata prima di un’altra domanda che resta invece a tutt’oggi aperta e che per anni ha tormentato il Presidente: chi il 27 luglio del 1993 fece scoppiare le bombe a Milano, Firenze e Roma? La mafia? Pezzi deviati dello Stato? Perché in quella notte drammatica andò in tilt l’intero sistema di comunicazione di Palazzo Chigi? Ci fu un tentativo di golpe?
Quando lascia Palazzo Chigi, Ciampi ha 74 anni ed è Governatore onorario della Banca d’Italia, il suo nuovo “ufficio” (lo chiama così) dopo quello di governo. Più che altro, ha in testa l’Europa e la sfida della moneta unica, e su questo lavora con pazienza e discrezione, di fatto stendendo quello che diventerà nel 1996, col primo governo dell’Ulivo guidato da Romano Prodi, il programma del ministro del Tesoro. Il programma di Carlo Azeglio Ciampi ministro per la prima volta, forse l’unico incarico, in vista dello storico appuntamento con l’Euro, che ha voluto e cercato davvero. Già la seconda volta, col Governo D’Alema nel 1998 e dopo la grande delusione per il default dell’esecutivo Prodi, tornarono forti i dubbi ed il “sì” arrivò per spirito di servizio.
“Un metodo per governare” è il titolo di un piccolo libro che Ciampi ha scritto nel 1996 e che celebra lo strumento della “concertazione” da lui fortemente voluto per l’accordo sulla politica dei redditi del 1993. Ma il “metodo Ciampi” è in realtà qualcosa di più e di diverso, insieme personale ed istituzionale. Nel Paese dove la corsa alle poltrone prima, e il ferreo quanto gattopardesco mantenimento delle posizioni di potere poi, è tra gli sport più praticati, Ciampi ha sempre lavorato sodo e con dedizione nell’incarico affidatogli dallo Stato. Ma era ogni giorno preparato a lasciare. Da Governatore, quante lettere di dimissioni ha effettivamente presentato, e non evocato o peggio minacciato? Davvero molte. Certe parole di Ciampi dicono tanto: «Siate sempre pronti a lasciare il vostro incarico da un giorno all’altro, senza un rimpianto, uscendo dalla porta senza guardarvi indietro». In fondo, questo è il vero segreto del suo metodo.
Quando nel 1999 centrosinistra e centrodestra gli chiedono di salire al Quirinale, Ciampi ha 79 anni. Interpreta il suo ruolo di Capo dello Stato esattamente come aveva interpretato per quattordici anni quello di Governatore, cioè in modo né “disdegnoso” né “borioso”. Il suo è un “ufficio” presidenziale mai aspro e di grande presa popolare, da “cittadino” che riscopre i valori della patria e dell’identità italiana. Tutti gli tirano la giacca, ma non si scompone e non si schiera come il predecessore, Oscar Luigi Scalfaro. La coabitazione con Silvio Berlusconi premier non è facile, le tensioni non mancano. Però le sue prese di posizione pubbliche, e soprattutto la sua “moral suasion”, già sperimentata con successo quando era al timone della Banca d’Italia, sono un miracolo di equilibrio politico sostanziale. Di nuovo: Ciampi non è un frenatore ma è guardingo, e sa farsi valere nei momenti che contano.
E poi c’è, soprattutto, il suo metodo che non l’abbandona. Nel 2005, un anno prima della fine del mandato presidenziale, Ciampi scrive a mano, in un foglietto che poi custodirà nel portafogli, il suo categorico rifiuto ad ogni ipotesi di rielezione che già affiora nei partiti. Il 3 maggio 2006 il foglietto diventa comunicato ufficiale della Presidenza della Repubblica. Annota Peluffo nel suo libro “Carlo Azeglio Ciampi , l’uomo e il Presidente”: è il documento «eticamente più intenso della vita pubblica di Ciampi, è il frutto di una visione complessiva di cosa sia il “potere” e di quale differenza fondamentale separi “autorità” e “potere”. Se non si ha la capacità di tagliare netto, di chiudere quando è il momento, il potere manifesta tutta la sua natura moralmente ambigua e diventa pericolo per sé, per l’individuo e per la comunità».
La forza di Ciampi, nella sua lunga e dignitosa vita di uomo dello Stato, è stata questa. Averla esercitata è stata un bene per l’Italia.