Libero, 16 settembre 2016
Sangue a fiumi per le strade di Dacca per la festa di Allah
Ancor più dell’acqua compattamente tinta di rosso cupo, ciò che si imprime negli occhi di chi guarda le fotografie scattate nei giorni scorsi a Dacca è la disinvoltura, la tranquillità con cui gli abitanti della capitale del Bangladesh camminano in mezzo a quell’acqua intorbidata da litri e litri di sangue. Si imprime negli occhi, quest’aria di normalità, e produce sgomento, perché insinua anche in chi vorrebbe tenersene il più lontano possibile il velenoso dubbio di trovarsi di fronte a un’altra umanità, a individui con i quali si condivide l’aspetto esteriore ma non i sentimenti più profondi, non la percezione e la valutazione ultima del reale.
In una delle numerose immagini che da ieri hanno cominciato a circolare sul web, si vedono per esempio due guidatori di risciò duramente impegnati a fendere l’acqua vermiglia con il loro umile mezzo di trasporto: entrambi conducono dei clienti, uno dei quali, vestito di una tunica bianca, ha l’aspetto imperterrito di un santone. Il fatto di muoversi in un fiume di sangue non sembra disturbare nessuno, né induce alcuno a fermarsi, a scendere dal risciò e ad accostare al margine della strada. Il problema non è il sangue, ma l’eccesso di acqua che rende penoso spostarsi. Che stavolta l’acqua sia rossa, anziché trasparente, è appena un dettaglio. In un’altra foto sono immortalate tre persone, due uomini e una donna, che procedono a piedi nell’acqua scarlatta avendo avuto cura di sollevare un poco i propri abiti, così da non bagnarli. Ma, anche qui, il loro contegno non lascia trasparire particolari fastidi: potrebbero benissimo essere dei turisti alle prese con l’acqua alta in Piazza San Marco.
Di primo acchito si potrebbe pensare che le immagini di cui stiamo parlando siano ritoccate: basta saper smanettare un po’ con Photoshop per modificare i colori di una fotografia e, se lo si desidera, rendere appunto rossa l’acqua. È un sistema facile facile per generare un effettaccio horror. In questo caso, però, l’orrore è vero, ed è quello prodotto dallo sgozzamento di centinaia e centinaia di animali (per lo più caprini e ovini, ma sono ammessi anche bovini e camelidi) praticato dai cittadini di Dacca in occasione della festività musulmana denominata Eid al Adha, in arabo «festa del sacrificio», la quale celebra ogni anno l’uccisione di un montone da parte di Abramo in luogo del proprio figlio Isacco, quel figlio che il profeta si era mostrato disposto ad assassinare prima di venire fermato da un angelo pur di ottemperare al volere divino. Le forti piogge monsoniche di fine estate han fatto sì che il sangue delle bestie, quasi sempre sgozzate in luoghi diversi da quelli che le autorità avevano indicato come idonei all’esecuzione del rituale (secondo alcuni residenti non sarebbe stato spiegato con chiarezza, quest’anno, dove tali luoghi deputati si trovassero), venisse travolto dalla massa d’acqua e vi si mescolasse, rendendo le vie di Dacca i canali di una terrorizzante Venezia.
Terrorizzante per noi, conviene ripeterlo, perché tutto quel sangue non risulta abbia creato il minimo problema morale negli abitanti (quasi quindici milioni) di Dacca. Può, tutt’al più, aver generato qualche disagio pratico, di sicuro non etico. Eid al Adha, per quello che a noi-e solo a noi appare un paradosso, è del resto conosciuta come la festa della letizia: il momento di suprema gioia (oltre che, non lo si dimentichi, di completa sottomissione ad Allah) corrisponde a una pratica di eccezionale ferocia. È, a ben vedere, una delle contraddizioni dell’islam, religione che ha generato un’arte disincarnata, priva di figure, quasi astratta, e che pure, misteriosamente, promette ai maschi un paradiso con settantadue vergini da deflorare.