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 2016  settembre 16 Venerdì calendario

Joe Hill, lo scrittore horror che ha rinnegato il suo nome ma non suo padre, Stephen King. E ora ne segue le orme

Ha rinnegato il suo nome. Eppure suo padre è uno dei più grandi romanzieri di sempre. Sua madre Tabitha è una celebre scrittrice americana. Il fratello Owen e la sorella Naomi idem. E pure sua cognata, Kelly Braffet. Lui, invece, ora si chiama Joe Hill. Secondo “Time” è uno dei più “raffinati autori horror” viventi, il suo “The Fireman” è appena arrivato in libreria per Sperling & Kupfer ed è un romanzo post-apocalittico che cuce Bradbury («gli ho rubato il titolo di un racconto che aveva scritto sulla rivista “Galaxy” nel 1951», confessa), le pandemie di Crichton e “L’ombra dello scorpione” di Stephen King. Che, tra le altre cose, è il padre di Joe Hill. Ma adesso
hanno cognomi diversi perché Joe, 44 anni, cui King ha dedicato persino Shining, fino a qualche anno fa si spacciava per uno scrittore qualunque: «Non volevo essere pubblicato solo perché sono il figlio del “re” della letteratura», racconta oggi Joseph Hillstrom King (suo vero nome). La somiglianza col padre era però spaventosa. E, qualche anno dopo, quella maschera si è sbriciolata.
The Fireman – L’uomo del fuoco parla di una peste contemporanea, “La Scaglia di Drago”, che sta sterminando l’umanità causa autocombustioni estremamente infettive. La protagonista è Harper, generosa infermiera di un lazzaretto, che cura come può i malati spacciati verso l’inferno. Perché questa piaga mondiale pare inarrestabile. Ma forse la soluzione ce l’ha “L’uomo del fuoco”, appunto. «Lessi dell’autocombustione a 12 anni», spiega Hill. «Ho cominciato a vivere nel terrore, a pensare che un giorno sarei morto così».
E dunque ha deciso di scrivere “L’uomo del fuoco”.
«Il fuoco mi sembrava la metafora perfetta delle nostre paure: quella di estinguerci, del diverso, della malattia. Come gli zombie di Walking Dead, è l’orrore che temiamo per la nostra civiltà».
A proposito, perché il libro ha un ritmo molto particolare, a climax alternati, come quello delle serie tv?
«Noi scrittori dobbiamo combattere ogni giorno per far leggere le persone. Nell’era di Netflix, prodotti come Breaking Bad, Fargo, Game of thrones hanno trame sempre più simili a un romanzo. Perciò L’uomo del fuoco è a sua volta pensato come una serie tv, dove i capitoli sono legati ma anche autosufficienti. Dobbiamo adeguare la scrittura alla nostra epoca».
Lei ringrazia suo padre a inizio libro, l’uomo «a cui ho rubato tutto il resto».
«Ho avuto tante influenze letterarie, da Bernard Malamud a David Mitchell. Ma non sono niente se penso solo alle storie che mi hanno raccontato i miei genitori».
Di cosa parlate?
«Di scrittori, letteratura, dei romanzi che stiamo leggendo, dell’editoria, del futuro delle librerie. A volte sembriamo una famiglia del XIX secolo».
In che senso?
«Soprattutto quando ero più piccolo, leggevamo a voce alta interi racconti o libri in salotto, dopo cena. È così che ho conosciuto C.S. Lewis: Il leone la strega e l’armadio (della serie Cronache da Narnia, ndr) è stato il mio primo audiolibro. Dal vivo però».
Cosa le raccontava suo padre?
«Lei penserà racconti paurosi».
E invece?
«Mi raccontava storie divertentissime. Voleva farci ridere, sempre. La mia preferita era quella dei Fart Cookies».
Prego?
«Era la storia di alcuni bambini che vanno da una strega dopo che i genitori si sono ammalati. E la megera dà loro alcuni biscotti che, se mangiati, fanno emettere flatulenze per tutta la vita. La cosa incredibile è che qualche tempo fa ho incontrato un collezionista che aveva una copia rarissima di questa storia. Mio padre ne aveva stampato 200 copie in segreto, senza dirmi niente».
Ma che padre è King?
«Un buon padre. Poi, certo, nessuno è perfetto. Quando ero piccolo, in realtà, era mamma la più presente. Lui spesso era assorbito dalla scrittura, chiuso nel suo studio e a volte era pure ubriaco fradicio… ma è sempre stato amorevole, parlava molto con noi, ci portava al cinema».
L’ha aiutata nella scrittura?
«Sì, è stato sempre prodigo di consigli. Da giovane soffrivo di disturbi mentali. In alcuni momenti di “quiete interiore” sono riuscito a pubblicare la raccolta Ghost e poi il primo romanzo La scatola a forma di cuore, che andò piuttosto bene. Ma non me lo aspettavo, e questo mi ha fatto ripiomba- re nell’ansia. Mi torcevo al solo pensiero di un secondo libro, ero diventato paranoico. Chiamavo tutte le notti papà».
E lui? Si arrabbiava?
«Mai. Era paziente, ascoltava le mie paure e non potrò mai dimenticare il bene che mi ha voluto in quei momenti. È stato lui il primo a consigliarmi la psicoterapia. Ma non volevo cedere, temevo potesse nuocere alla mia creatività. Meglio essere un buono scrittore o un buon padre, in salute, felice?».
E alla fine cosa ha scelto?
«Ho scelto di essere un buon padre. Come il mio. Le medicine e la terapia mi hanno aiutato. E paradossalmente anche la mia scrittura è migliorata».
Ha mai provato invidia per il successo di suo padre?
«Mai. Solo ammirazione».
E allora perché ha rinnegato il suo cognome?
«Perché non volevo essere pubblicato come “il figlio di Stephen King”. Volevo commettere anche io i miei errori, e mio padre l’ha capito. Ci vuole tempo e pazienza per diventare un grande scrittore. I miei primi libri non sono stati bestseller. Ma sono serviti a farmi a capire come un narratore può diventare interessante, come può trovare un proprio pubblico, uno vero intendo. Così ho impiegato dieci anni in più ad emergere. Ma è stato più bello».