Corriere della Sera, 15 settembre 2016
La più grande miniera mondiale dei bitcoin è in Cina
A Kongyu, nella regione tibetana di Garze, la chiamano tutti «The Mine», la miniera. Ma qui non si estrae niente. Tra cieli blu, turbine elettriche e fiumi, sulle montagne del Sichuan occidentale, a venti chilometri dal resto della civiltà, ha sede la più importante centrale di controllo delle transazioni in bitcoin. Niente oro o diamanti, dunque. La ricchezza di «The Mine» è la moneta virtuale, il cui scambio passa attraverso i microprocessori collocati in questa centrale.
«Quando i bitcoin sono stati creati erano considerati un’idea cripto punk e libertaria», ha spiegato al Washington Post Eric Mu, capo marketing della HaoBtc, colosso proprietario dell’impianto.
Il sogno era che l’economia potesse svincolarsi dal controllo di banche e governi. Oggi, diciassette anni dopo, mentre il mondo ancora si interroga sull’identità di Shatoshi Nakamoto, lo pseudonimo dietro cui si cela l’inventore della cripto moneta, per ironia della sorte, questo mercato da 9,2 miliardi di dollari è finito sotto il controllo cinese.
A favorire la Cina in questa partita, la produzione dei microprocessori più economici e più adatti alla gestione del mercato dei bitcoin. Inoltre, nonostante il governo di Pechino abbia vietato alle banche il commercio di bitcoin nel 2013, ai singoli imprenditori è permesso fare transazioni in cripto moneta, con il risultato – secondo un rapporto di Goldman Sachs – che l’80 per cento del volume di scambi in bitcoin ha coinvolto la moneta cinese, lo yuan.
A far cadere la scelta sul Tibet come sede di «The Mine» ha giocato invece la presenza di elettricità e di manodopera a buon mercato necessaria a far funzionare i microprocessori. Lasciate indietro dunque l’Irlanda e la Mongolia, individuate in prima battuta come sedi di «The Mine», il cervellone dei bitcoin è approdato sul Tetto del mondo.
La routine della miniera dei bitcoin è «semplice», spiega ancora Mu. Alle 7.50 ogni mattina si tiene una riunione operativa per stabilire gli obiettivi e discutere le criticità. Chi arriva tardi viene sanzionato (ma non è dato sapere come). Poi, nel pomeriggio, c’è spazio per qualche attività ricreativa. Quasi nessuno dei dieci operai assunti lascia «The Mine» «perché nei dintorni non c’è assolutamente niente da fare», come confessa il manager cinese sul sito Coindesk.com.
Ad attirare qui la mano d’opera, paghe più alte che nelle centrali idroelettriche della regione. Così per meno di mille dollari al mese c’è chi vive qui, tra turbine e microprocessori, aspettando con ansia il mese di ferie concesso.