Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2016
Perché il protezionismo di Trump finirebbe col far arretrare l’economia
L’imprevedibilità che caratterizza le presidenziali americane (acuita per di più dalle incerte condizioni di salute di Hillary Clinton) mal si concilia con il ruolo di leadership economica globale degli Stati Uniti. Questa egemonia non dipende soltanto dall’importanza dell’economia americana. Gli Usa contano per meno di un quarto del Pil globale, ma la loro leadership continua perché i principi e i valori americani sono incorporati nella struttura e nelle istituzioni economiche internazionali.
Perciò la politica economica annunciata da Donald Trump appare tanto più inadeguata. I suoi consiglieri, dopo essersi ispirati a Richard Nixon che, nel 1968, vinse le elezioni presidenziali promettendo stabilità, ordine e disimpegno al posto di interventismo, trasformazione e sacrifici, hanno creato lo storytelling di un ritorno al boom degli anni 80 e alla Reaganomics promettendo taglio delle tasse, deregulation e uno stretto giro di vite contro i partner commerciali scorretti come la Cina. Ma la promessa di tagliare le tasse, non toccare la spesa sociale e ridurre il debito nazionale allo stesso tempo appare, conti alla mano, alquanto insostenibile se non si allarga contemporaneamente la base imponibile.
Innanzitutto, anche se il taglio delle tasse è una linea politica di continuità dei repubblicani, si tratta sempre di una questione di misura. Pur avendo Trump già rivisto le aliquote promesse, adesso propone di ridurre il top rate da 39,6% a 33% e la corporate tax sui ricavi di oltre la metà (dal 35% al 15%). Riguardo al commercio estero, le sue proposte ispirate al protezionismo finirebbero col far arretrare l’economia e ridurre il potere di acquisto dei salari a motivo dell’aumento dei prezzi interni. Perché vi sono cambiamenti strutturali che non possono essere affrontati con ricette semplicistiche. I posti di lavoro nel comparto manifatturiero sono declinati costantemente dal 1945 al 2014 e, pertanto, l’adozione di misure protezionistiche non li farebbe ritornare.
Nonostante lo scenario distopico dipinto da Trump, l’economia americana resta la più robusta del mondo avanzato con un tasso di disoccupazione al 4,9-4,8%, anche se ha aree di degrado sociale e un elevato tasso di povertà. Il governo americano spende circa il 4% del Pil per aiutare i poveri, inclusi i programmi di welfare, più di quanto stanzia per la difesa (3,35% del Pil). Malgrado ciò, le persone che vivono in povertà sono circa il 15% della popolazione come cinquant’anni fa.
Va ricordato che il debito federale sul Pil aumentò negli anni 80 proprio con Reagan. Con Bill Clinton si ridusse grazie alla diminuzione delle spese militari, all’aumento delle tasse e al boom economico. Oggi, il rapporto di previsione annuale del Congresso afferma che, senza un cambiamento nelle politiche di bilancio, il debito americano salirebbe al punto che nel 2046 spese sociali e debito non sarebbero più coperti con le attuali aliquote fiscali. Ma nessuno dei candidati alla Casa Bianca sembra aver predisposto un piano per invertire questa tendenza.
Peraltro, nel summit dei banchieri centrali di Jackson Hole, Janet Yellen e i membri del comitato a lei vicini hanno sollevato la questione della divisione di ruoli e di compiti fra politica fiscale e monetaria, fra politiche di breve e di lungo periodo richiamando i governi a introdurre riforme strutturali per aumentare la produttività e gli investimenti, innanzitutto in ricerca e sviluppo e capitale umano.
Le politiche preannunciate da Hillary Clinton tengono conto dei mutamenti strutturali intervenuti in questi anni nella società e nell’economia, anche a motivo della rivoluzione digitale, e denotano una visione dell’America nel contesto globale. La sua priorità è creare lavoro attraverso investimenti pubblici in infrastrutture materiali e immateriali, allargare il perimetro del welfare anche per consentire una maggiore partecipazione delle donne al mondo del lavoro, incoraggiare le imprese a dividere i profitti con i loro lavoratori con un nuovo sistema di deduzioni fiscali. Come Trump intende incrementare il salario minimo e promette un “rinascimento manifatturiero”.
Tuttavia, nel lungo periodo, è la produttività che determina il miglioramento dei salari. La vera sfida degli Usa è, infatti, di rianimare l’andamento della produttività calata da una media del 2,5% annuale dei primi anni 2000 ad appena lo 0,9% annuale dalla crisi finanziaria. Ma questo è possibile soltanto con le riforme strutturali e gli interventi di politica fiscale suggeriti dalla Fed e comporta la ferma volontà politica del Congresso.