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 2016  settembre 14 Mercoledì calendario

Simone Biles e le anfetamine

«Simone Biles potrebbe passare alla storia dello sport come la prima atleta narcolettica a vincere quattro medaglie d’oro in una sola olimpiade», scherzavano così, ieri sera, alcuni dei massimi esperti di antidoping italiani. Era solo una battuta, ovviamente, ma fino a un certo punto. Perché, oltre alla narcolessia, patologia difficilmente conciliabile con la vita di un atleta di punta come la Biles, non ci sono molte altre motivazioni cliniche che possano suggerire a una commissione medica di prescrivere una cura a base di quotidiane, massicce dosi di anfetamine, destroanfetamine e dexmetilfenidato.
Al di là della battuta è evidente che il leak di documenti della Wada, operato con palesi finalità politiche da hacker russi, ha messo il dito in una piaga enorme, quella delle “esenzioni a fini terapeutici” (Tue, theraputic use exemption), ovvero il complicato e ambiguo meccanismo con cui il sistema antidoping permette agli atleti di utilizzare in via eccezionale farmaci contenenti molecole dopanti, in caso di necessità terapeutiche dell’atleta.
Il caso Biles, da questo punto di vista è eclatante. Perché il percorso farmacologico tracciato dai documenti in questione difficilmente può essere spiegato in maniera credibile con una patologia. Nel settembre del 2012, quindi subito dopo le olimpiadi di Londra, all’inizio del quadriennio olimpico di Rio, la Biles viene autorizzata ad assumere 15mg al giorno di anfetamine per via orale (ha appena 15 anni). L’autorizzazione viene rinnovata nel 2013 e nel 2104. Nel 2015 la sua patologia ha un’evoluzione e si passa dall’anfetamina al dexmetilfenoidato (una sostanza dagli effetti non dissimili) con un’autorizzazione che scadrà nel 2018. Le date sono importanti perché è una coincidenza perlomeno suggestiva che nel 2013, cioè proprio a un anno di distanza dall’inizio della terapia a base di anfetamine, che la Biles diventa la Biles, comincia cioè a stupire e a vincere gare.
Gare, comprese quelle di Rio, la cui correttezza sportiva (quella legale è fuori di dubbio, il Tue esclude il doping), oggi è da mettere in discussione. Difficilmente, osservano gli esperti, tutte quelle sostanze, assunte legittimamente o meno, non hanno alterato le prestazioni. E basta ascoltare le parole di Vanessa Ferrari per capire di cosa parliamo: «Non so cosa sia successo, so invece tutta la fatica che ho fatto per essere lì, con un tendine semi- distrutto in una finale olimpica. Mi auguro che ora si facciano indagini serie». E qui viene fuori l’altro aspetto del problema. Perché le eventuali indagini sul caso (chi c’era nella commissione del Tue? Quali patologie giustificavano quelle cure?) le dovrebbe fare la Wada, cioè l’organismo finito al centro della bufera sui Tue.
Un problema antico sempre tollerato: basti pensare che alle olimpiadi di Torino 2006, il laboratorio olimpico individuò 65 casi di positività. Alla fine ci fu una sola condanna e 64 “assoluzioni”, tutte coperte dai Tue. Vale a dire che in gara alle Olimpiadi c’erano 64 atleti malati, con patologie – presumibilmente serie – curabili solo, guarda il caso, con sostanze dopanti. È credibile?
Nemmeno un mese fa la Wada brandendo il logoro motto della tolleranza zero aveva chiesto e ottenuto la condanna della Russia, parzialmente esclusa da Rio 2016 per il doping di stato. Oggi quel motto le si rivolta contro.