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 2016  settembre 14 Mercoledì calendario

In morte di Ermanno Rea

Corrado Stajano per il Corriere della Sera
Una libera vita quella di Ermanno Rea, morto l’altra sera nella sua casa di Roma, vicino al colonnato di piazza San Pietro: lui che si definiva un «anticlericale non militante» viveva in una strada che sembra un collegio di preti. Rideva delle sue contraddizioni. Ha fatto sempre il contrario di quel che i più fanno. Con una vecchia Citroën che sembrava una ciabatta sfondata risalì il Po dal delta alla sorgente senza mollare l’argine maestro per più di 500 chilometri. Sostenne tutti gli esami, un bellissimo libretto il suo, della facoltà di Lettere, poi trovò inutile laurearsi. Giornalista, fotografo, cominciò a scrivere libri a sessant’anni e divenne un grande scrittore. Napoletano, tra amore, odio e disincanto, giurava che non avrebbe mai più scritto di Napoli, la città traditrice e tradita. Ma poi – si sentiva un drogato, un pentito – ricadeva nel vizio che considerava assurdo e scriveva di nuovo di quei quartieri, di quei vicoli, di quegli uomini e di quelle donne che non gli erano mai usciti dal cuore. Napoli – l’ha sognato per tutta la vita – doveva essere il contrario della città dell’improvvisazione, dell’approssimazione, dell’imprecisione, della letteratura cartolinesca. Doveva diventare la città della razionalità, della solidarietà, dell’etica del lavoro. Le delusioni sono state tante: la camorra è un’industria che continua a sparare, la classe dirigente non è eccelsa.
Il nuovo libro che Rea non ha fatto in tempo a vedere – uscirà tra un mese – s’intitola Nostalgia, un simbolo, un segno del destino. Protagonista è il Rione Sanità proprio dov’è nato.
La normalità dell’inquietudine è stata la chiave dell’esistenza di Ermanno Rea. Con un’allegrezza sincera che nasceva dalla sua vitalità sapeva mascherare l’antica tristezza dei napoletani. Che in lui non era rifiuto, passività, ma voglia di fare, di diventare, di inventar programmi, di tentar di cambiare nel suo piccolo, diceva, un mondo che gli era diventato straniero.
Ermanno Rea è stato sempre fedele alle sue idee, alla sua visione della vita. Ragazzo partigiano della brigata garibaldina «Gino Menconi» che operò in Toscana, giornalista all’ «Unità» di Napoli nell’Angiporto Galleria, con Fausto De Luca, Enzo Striano, Franco Prattico, Renzo Lapiccirella e Francesca, la protagonista del suo capolavoro, Mistero Napoletano, (1995), donna di una bellezza aspra, intrigante, «aveva lineamenti da Shéhérazade», libro che Cesare Garboli, presidente del Viareggio, ben capì e premiò l’anno successivo. Per Rea scrittore fu forse la gioia più grande.
Dopo il giornalismo degli anni Cinquanta, diventa un fotografo rinomato della scuola partenopea di Caio Garrubba, Calogero Cascio, Antonio e Nicola Sansone. Con la sua macchina non fissa soltanto l’Italia della società contadina, dell’occupazione delle terre, delle raccoglitrici di olive. Gira il mondo, la Dublino di Joyce, i luoghi del Don Chisciotte, la Lubecca di Thomas Mann, l’India della miseria più cupa, i posti di Che Guevara. Si stanca. Le borse da fotografo pesano troppo, torna a fare il giornalista. Lavora a «Panorama», settimanale nascente, e, soprattutto a «Tempo Illustrato» dov’è direttore Nicola Cattedra cui lo lega la grande simpatia e umanità. Poi «Il Giorno» e altri quotidiani, ma lo scrivere il «suo» libro dev’essere stato per lui un tormento, l’ombra di Francesca che gli è pesata addosso per tutta la vita.
Gli enigmi, i misteri lo attraggono. Non scrive subito di Francesca. Lo attrae la sparizione di Federico Caffè, grande economista, uscito di casa la notte tra il 14 e il 15 aprile 1987 e non più ritornato né ritrovato vivo o morto, nonostante gli infiniti tentativi fatti dai suoi allievi della Sapienza di Roma. Qual è stato il progetto di scomparire, rigorosamente preparato, di uno scienziato dell’economia che non affidava nulla al caso? La vecchia Einaudi pubblica nel 1992 questo romanzo minuziosamente vero che non passa inosservato. Rea si identifica in Caffè, nel mondo inconciliabile degli Anni 80 che ferisce, emargina, offende, governato com’è da un dio maligno, ottuso e reazionario, mascherato con i simboli della modernità. Non è un instant book L’ultima lezione. È nato uno scrittore.
Tre anni dopo, Mistero Napoletano. Narrazione, romanzo, saggio, inchiesta, diario, è un libro ricco di suggestioni. Lo scrittore è tornato a Napoli. Non è uno svagato cantore della memoria. Quel che scrive è una dichiarazione d’amore per una donna, per una città, anche se Rea lo nega: dice pudicamente che lui non è stato mai innamorato di Francesca. Lo scrittore ricostruisce quel tempo smarrito, e, come un misirizzi, spunta la Napoli degli anni Cinquanta, ombelico del mondo della Guerra fredda, venduta agli americani, con un sindaco sanfedista, un Pci stalinista e settario. Personaggi ben reali fanno da sfondo, il matematico Caccioppoli, il ragazzo Rea, i dirigenti del Pci e le loro logiche di potere, uomini e donne umiliati e offesi perché cercano di difendere con opinioni difformi la loro dignità.
Francesca si uccide, su un letto agghindato, la sovracoperta raffinata, i fiori sparsi dell’iconografia romantica. Lascia come testamento una poesia di Rilke, Alcesti, la donna che si diede la morte per tentare di salvare il suo uomo. Un romanzo storico? Un romanzo soltanto d’amore? Perché Francesca si uccide in questa scena difficile da dimenticare?
Lo scrittore è ormai sicuro di sé, non cambierà più mestiere. La critica è attenta, anche se i suoi libri escono dagli schemi accademici e c’è chi gli rimprovera la mescolanza dei generi. Scrive anche romanzi romanzi, come Fuochi fiammanti a un’hora di notte (Premio Campiello 1999), ma non dimentica le sue origini di comunista critico, la sua attenzione per i problemi sociali e civili. La dismissione, del 2002, è il racconto della fine dell’Ilva di Bagnoli. Da ragazzo, Rea andava a fare il bagno in un posto chiamato Trentaremi sul fondo della collina di Posillipo e – era appena finita la Seconda guerra mondiale – guardava con orgoglio l’acciaieria, in quel posto di impagabile bellezza. Nel libro-verità l’operaio Vincenzo Buonocore, la memoria della fabbrica che non esiste più, racconta quel che è accaduto. I cinesi hanno acquistato le apparecchiature, i macchinari, e lui deve smontarli a regola d’arte, come il personaggio di Primo Levi, il montatore Faussone della Chiave a stella. Il lavoro dev’essere ben fatto. È un romanzo di fascino doloroso, La dismissione, se si pensa alla funzione politico-culturale che hanno avuto le grandi fabbriche, a Milano la Pirelli, la Breda, la Falck, la Magneti Marelli che non esistono più e hanno lasciato nell’intero Paese un vuoto non colmato, un assetto sociale da rifondare.
Ermanno Rea ha lavorato fino all’ultimo giorno. Attento al futuro dei suoi due figli, Carlo, pittore, scultore, musicista, e Caterina, ordinaria di Antropologia all’Università di Salvador de Baja, in Brasile. Ha vissuto a Milano, a Campagnano di Roma, a Massa Lubrense, nella sua lunga vita ha fatto soltanto ciò che ha ritenuto giusto. Gli è rimasto un desiderio inappagato, una grande terrazza sul mare.

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Mario Baudino per La Stampa
«A tutti i miei traumi io ho reagito sempre alla stessa maniera: chiedendo aiuto ai libri. Per quel che mi riguarda, il libro è prima di tutto una ciambella di salvataggio. Non che ti migliori, a questo credo poco. E neppure che ti sani le ferite. Però ti placa. Alla maniera di un lenimento, di un farmaco di pronto intervento». Lo dice Adele, grande lettrice, protagonista di Il sorriso di Don Giovanni (Feltrinelli), un romanzo del 2014 che riprendeva a distanza i temi visionari di Fuochi fiammanti a un’hora di notte (Rizzoli, 1998, Campiello l’anno successivo).
Era anche una forma di autobiografia spirituale: Ermanno Rea aveva identificato nel personaggio di Adele il suo sentimento di lettore, la «passione predominante» di un uno scrittore dalle molte inclinazioni, tra politica, giornalismo, organizzazione culturale e impegno sociale. Soprattutto di un testimone implacabile, fra rabbia e improvvise indulgenze, della sua Napoli cui sono dedicati i romanzi-inchiesta più noti, come Mistero napoletano. Vita e passione di una comunista negli anni della guerra fredda (Einaudi 1995) con cui vinse il Viareggio. Che è sostanzialmente un memoir in forma narrativa.
Ermanno Rea è morto nella sua casa di Roma, a 89 anni, proprio mentre sta per uscire da Feltrinelli - in libreria il 13 ottobre - Nostalgia, storia di un destino di amicizia e di morte nel Rione Sanità, condannato dalla sua stessa storia a una sorta di claustrofobia sociale. Sarà fiction, ma fiction d’intervento e di impegno, dove ancora una volta si sente in filigrana il reportage, tra ansia di riscatto sociale e lotta cieca, cupa, senza prospettive.
L’inchiesta e il periplo della città, strada per strada, sono stati del resto la sua cifra costante di scrittore atipico. E anche acclamato rappresentante della letteratura cosiddetta industriale, quando dedicò La dismissione (Rizzoli 2002) alla fine delle acciaierie di Bagnoli con una saga operaia che segnò la fine di un’epoca. In parallelo si è rivolto a vicende fra cronaca e storia come la scomparsa dell’economista Federico Caffè (L’ultima lezione, Einaudi, 1992) o in Il caso Piegari (Feltrinelli 2014) che ricostruisce la vita di un giovane economista schiacciato dalla macchina togliattiana del centralismo democratico. È un saggio, questo, più che un romanzo, ed è uno dei suoi libri più «veri», senza retorica, ancora una volta un’inchiesta sulla storia atroce e dimenticata di un intellettuale che dopo l’espulsione dal Pci venne trattato come un povero pazzo, fino alla morte nel 2007.
Storie napoletane, dolci e feroci. Dedicate a una città amata e tenuta a distanza. Napoli era la sua «casa ideale», dove peraltro aveva riportato in vita l’omonimo premio. Ma si rifiutò di viverci - ci andava spesso, rigorosamente in albergo -, quasi a segnare un distacco tra i ricordi e la vita quotidiana, tra i libri e tutto il resto: che non è stato meno ricco di passione. «Comunista» nonostante tutto, Rea si presentò come ultimo gesto alle elezioni europee del 2014, proprio l’anno di Don Giovanni, capolista nella circoscrizione Italia meridionale di L’altra Europa con Tsipras. Non venne eletto.

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Generoso Picone per Il Messaggero
Quando nel 1993 Ermanno Rea decise di tornare a Napoli, prese un appartamento dalle parti di via Calabritto e andò a trovare Aldo Masullo all’Università. Aveva un interrogativo che premeva come un’ossessione almeno da una trentina d’anni, dalla sera del Venerdì Santo del 1961. Allora Francesca Spada si uccise. Perché per lei non ci fu salvezza possibile? I rintocchi di un orologio gli ricordarono che il tempo divora ogni cosa. Ma che cosa divora esattamente il tempo? domandò al filosofo. «Il tempo è vivere l’incessante franare dal suolo su cui siamo appena passati, sì che ogni volta il presente nasce da una frattura», fu la risposta.
Ermanno Rea è morto la notte scorsa nella sua casa di Roma all’età di 89 anni. L’immagine fa da premessa a Mistero napoletano, lo straordinario libro uscito nel 1995, la prima parte della cosiddetta «trilogia dei ritorni e degli addii», Rosso Napoli sarà il titolo del volume che raccoglierà nel 2009 anche La dismissione (2002) e Napoli Ferrovia (2007). Ritorni, addii, sparizioni, inquietudini, scavi, sofferti riammagli della memoria, hanno sempre caratterizzato il lavoro di Ermanno Rea, una sorta di metodo letterario che è diventata sostanza densa della sua pagina; filosofia di vita che gli doveva venire dalla sua indole di giornalista (1960. Io reporter del 2112 ne è bella testimonianza anche fotografica).
MONDO SCOMPARSO
«Forse perché ho l’animo del disertore», diceva Rea, ma occorrerebbe riprendere L’elogio della fuga di Henri Laborit per comprendere il valore ermeneutico che l’esodo può avere per l’esistenza. «Sento di appartenere a quel mondo di scomparsi». Del resto, prima di Mistero napoletano, Ermanno Rea aveva raccontato ne L’ultima lezione (1990) l’economista Federico Caffé, perso nel buco nero del tempo, dissoltosi senza una ragione. O forse, con troppe ragioni. «Gente che ha rinunciato alla propria identità, che ha cancellato le sue tracce». I suoi anni napoletani ne erano pieni, da Renato Caccioppoli a Gianni Scognamiglio fino a Guido Piegari (Il caso Piegari, 2014).
A Napoli, Ermanno Rea si era messo a cercare tracce. Nella città dov’era nato il 28 luglio 1927 e dove aveva scelto di tornare ancora una volta per il romanzo che avrebbe dovuto chiudere il suo ciclo. Non potrà invece vedere stampato Nostalgia, anche qui un titolo che fa destino. A Nostalgia a cui teneva moltissimo, sarà pubblicato il 13 ottobre da Feltrinelli, omaggio purtroppo postumo a Napoli e al Rione Sanità delle sue origini, via Cristallini. È la storia di un destino di amicizia e di morte, un melodramma ispirato da un’ansia di riscatto che fa di Napoli ancora un’icona di amore e di lotta senza sbocco.
Come era successo per Francesca Spada in Mistero napoletano, per il tecnico specializzato Vincenzo Buonocore dell’ex Italsider di Bagnoli, la fabbrica dell’anticartolina stereotipata ne La dismissione, per l’ex naziskin mishimiano Caracas in Napoli Ferrovia. Perdenti - «La verità è che siamo tutti dei perdenti. E poi detesto coloro che vincono», si giustificava Rea - che però nella loro sensibilità custodivano valori di fondo di cui il mondo, di cui Napoli, avrebbe fatto bene a tener conto: il culto ortesiano della bellezza di Francesca Spada che poi riermergerà fantasma ne La comunista del 2012, la cura e la responsabilità di Vincenzo Buonocore che sembrava un lascito de La chiave a stella di Primo Levi, l’integralismo romantico e solidale di Caracas innamorato della sua Rosa La Rosa.
I PREMI
Ermanno Rea con Mistero napoletano vinse il premio Viareggio nel 1996 e con Napoli Ferrovia fu finalista allo Strega del 2008. In mezzo, nel 1999, si aggiudicò il Campiello con Fuochi fiammanti a un’hora di notte, e per quel poco che possono valere i premi letterari conviene seguire questa scansione per non rubricare Rea come narratore di una materia esclusivamente napoletana. Lui, nella vicenda della sua città, aveva trovato l’occasione per mettere le maiuscole metafisiche agli avvenimenti dei giorni, la Grande Necessità Strategica di cui parlò nell’introduzione a Rosso Napoletano, come La Grande Occasione di Raffaele La Capria in Ferito a morte - il testo padre di ogni filosofia di fughe e ritorni - l’Accadimento straordinario di Nicola Pugliese in Malacqua: per dare un’epica al luogo del tempo bloccato.

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Giuseppe Lupo per Il Sole 24 Ore
Nella letteratura di questi ultimi anni - soprattutto quella a sfondo industriale - Ermanno Rea (morto ieri a 89 anni) si è guadagnato un posto di rilievo con i suoi libri, uno in particolare, La dismissione, pubblicato nel 2002 e diventato paradigma di un’epoca.
Continua pagina 18 Giuseppe LupoContinua da pagina 1 Prima di arrivare a questo traguardo, non possiamo non ricordare Mistero napoletano Fuochi fiammanti a un’hora di notte, con cui si è imposto al Viareggio nel 1996 e al Campiello nel 99. Ma è con La dismissione che Rea riesce a farsi interprete di un presente avvolto da mutamenti antropologici e ci consegna il resoconto lirico di un preciso momento storico: la fine dell’Ilva di Bagnoli, il cui triste epilogo, negli anni 90, segna il tramonto del progetto di industrializzazione del Mezzogiorno. In questo libro, che ha la forma di un romanzo ma il piglio di un poema tragico intonato a una fabbrica da smontare lentamente, pezzo per pezzo, e poi fare esplodere, c’è molto più di una vicenda delimitata geograficamente tra le falde del Vesuvio. C’è un inno a qualcosa che si è perduto (il mito del lavoro operaio, l’epica delle tute blu), vi si celebra un rito funebre in memoria di una stagione che ha fatto grande il Paese e che adesso lascia poco o nulla a ricordo di quel periodo a cui tutti pensiamo in termini favolosi: i decenni in cui l’Italia ha compiuto il balzo verso un’economia industriale, gli anni più belli del Novecento e forse di sempre. Del grande, affascinante universo di macchine Rea ha interpretato la parabola discendente, ha dato una visione epica e dolente, dai caratteri venati da quella solenne nostalgia che si prova quando stanno per spegnersi le luci su un universo felice. Grazie a lui abbiamo accompagnato le fabbriche e gli operai nella fase di passaggio dall’industria alla post-industria, ma siamo ben consapevoli che non è sparito il paradigma del lavoro, non si sono estinte le tute blu e le ciminiere. È finito un certo sguardo su di essi, si è modificata nella nostra percezione una materia che sapeva di smog, di rumori, di petrolio, di catene di montaggio. Il lungo parlare di Vincenzo Buonocore (l’operaio che è personaggio-guida del romanzo) conserva il timbro da aedo, lo stesso che abbiamo sentito sulle labbra di un altro suo collega, Tino Faussone della Chiave a stella di Primo Levi (1978). La sua filosofia, la sua malinconia sono il portato di una condizione anomala rispetto agli stereotipi di un meridionalismo fatalista e immobile, sono espressione di una consapevolezza che non possiede più l’entusiasmo degli anni 50 e 60, ma conserva la dolcezza verso un’esperienza - quella della fabbrica - che ha mutato le condizioni del popolo meridionale, ha disegnato un altro futuro nell’orizzonte di una plebe che solo pochi decenni prima aveva infruttuosamente lottato per entrare nel giardino incantato delle industrie Olivetti, a Pozzuoli. Mi riferisco ad Antonio Donnarumma, il protagonista del romanzo di Ottiero Ottieri (Donnarumma all’assalto, 1959), che sta quasi a contraltare rispetto a Vincenzo Buonocore. È destino che anche il Mezzogiorno industriale venga raccontato in forma di incompiutezza, spesso non sempre accreditato nei parametri di un capitalismo consolidato ed è forse emblematico che in nessun romanzo avvenga il miracolo di un Sud che si presenta agli antipodi rispetto allo stereotipo della civiltà agraria. Ma è con Ermanno Rea che il lavoro operaio esce dalle sacche del lamento e ottiene la sua dignità soprattutto in termini di riscatto etico, oltre che economico. Anche quando tutto finisce e si celebra l’epilogo della grande impresa che è stata l’Ilva di Bagnoli, rimane il sogno nell’odore della polvere che si solleva in aria dopo il crollo della torre plezometrica, ultimo avamposto della «vecchia ferriera». Da quella polvere sorge anche, quasi per incanto, l’Internazionale: una musica sacra, un inno per una moltitudine che ha 
creduto nei miraggi della modernità. Tutto concorre a voltare pagina: spariscono gli operai dai libri, spariscono i loro cantori.

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Francesco Erbani per la Repubblica
Negli ultimi tempi Ermanno Rea, che si è spento ieri a 89 anni, si era fatto crescere una folta barba bianca. Gli dava un’aria ancor più mansueta e contemporaneamente sembrava attingere a una misura classica. Lui restava quello di sempre – la parlata napoletana, gli occhi che scrutavano curiosi, il garbo, il tono di voce basso e leggermente cavernoso. Ma la barba – sarà stato il suo candore – lo faceva apparire statuario. Ermanno Rea è diventato scrittore a quasi settant’anni, dopo essersi speso per decenni come inviato speciale. Cominciò molto giovane all’Unità, nella sede napoletana di Angiporto Galleria, una piazzetta che si apre su via Toledo, poco prima di piazza Trieste e Trento. Per lui non fu solo un luogo di lavoro. Lì si formò una coscienza politica e lì prese a muoversi la sua facoltà dell’immaginazione, un impasto di memoria e di realismo. Dopo
l’Unità, lasciata nel 1957 in seguito all’invasione d’Ungheria, venne Vie Nuove. Seguirono le collaborazioni, i viaggi in Germania, nell’Est Europa, quelli africani e asiatici, dove realizzò tante foto (poi raccolte in 1960. Io reporter, Feltrinelli 2012).
A settant’anni, dunque, Rea diventa scrittore, ma scrittore singolarissimo. Inizia a scrivere romanzi che raccontano storie vere, ma non gli basta quel che di queste storie hanno già narrato le cronache. Rea ricostruisce, raccoglie dettagli, ma gli interessa scrutare le pieghe più nascoste dei suoi personaggi, che sono pur sempre persone vere. E così si spinge a indagare su come le cose sarebbero potute andare, non solo su come andarono. C’è un tratto manzoniano nella sua andatura. Verità e verosimiglianza, che Rea attraversa affabilmente, senza torsioni, con la naturalezza di una cronaca giornalistica che non si fida di verità ufficiali, ma cerca di capire cosa c’è dietro.
Realtà, cronaca, invenzione, autobiografia. Comunque, letteratura. Dopo un primo libro, Il Po si racconta (Edizioni del Gambero Rosso, 1990), Rea sprofonda nel mistero di Federico Caffè, l’economista che nell’aprile del 1987 uscì di casa, a Roma, sulla collina di Monte Mario, e sparì. Di lui non si è mai saputo più nulla. In L’ultima lezione (Einaudi, 1992) Rea prova a scalfire la coltre di enigmi che avvolge la scomparsa di Caffè, ma ricostruisce l’indole intellettuale e politica di uno studioso che coniugava la misura esatta della sua disciplina con una sensibilità sociale, e che anche all’economia affidava il compito di alleviare le sofferenze dei più deboli. Giornalismo d’inchiesta, racconto civile e politico e scavo psicologico compongono la miscela che Rea va sperimentando. Alla letteratura egli affida il ruolo che nessuna di queste componenti svolge da sola.
Verità e verosimiglianza: una scelta che l’ha esposto. In Mistero napoletano (Einaudi, 1995) Rea torna nella redazione dell’Unità di Angiporto Galleria dove lavora Francesca Spada, militante comunista colma di passione politica, intellettualmente spregiudicata, irriguardosa verso la morale bigotta predicata, ma non praticata nel Pci. Francesca scrive di letteratura e di musica e carica sulle fragili spalle il peso di redimere gli ultimi. È moglie di Renzo Lappiccirella, comunista dichiaratamente eretico ed è malvista dai vertici napoletani del Pci fortemente impregnati di stalinismo. L’accusano di comportamenti sfrontati e libertini. Sullo sfondo si vede una Napoli soffocata dal laurismo e che sconta sulla propria pelle la divisione del mondo in blocchi. La città è in gabbia e chi sfugge alle appartenenze finisce ai margini. Renato Caccioppoli, matematico di strabiliante cultura muore suicida nel 1959. E la sera del venerdì santo di due anni dopo anche Francesca si toglie la vita.
Mistero napoletano è la prima stazione di un tragitto romanzesco, di uno scavo dentro sé stesso e nella storia della sua generazione, nei conflitti politici e culturali del secondo Novecento. È compreso solo in parte in questo schema La dismissione (Rizzoli, 2002). C’è la Napoli che vede smontare nei primi anni Novanta lo stabilimento dell’Italsider di Bagnoli. Dismissione che molti auspicano perché l’acciaio non produce più utili e perché quelle ciminiere ammorbano una delle aree più belle del golfo. Rea vede l’altra faccia, la fine del sogno operaio di una città che aveva tentato di riscattare una storia plebea.
Venne poi Napoli Ferrovia (Rizzoli, 2007), in cui Rea andava in cerca dei luoghi dell’adolescenza e delle disperate battaglie in favore degli ultimi e dove riemerge Luigi Incoronato, lo scrittore di Scala a San Potito, un romanzo sconsolato, che racconta di un giovane attratto da un sordido ospizio per poveri. Incoronato si uccise un anno dopo Francesca.
Francesca ritorna in La comunista. È un fantasma che si aggira nelle vie intorno alla vecchia redazione dell’Unità. Al fantasma Rea narra che cosa sia successo dopo Mistero napoletano, quando alcuni dirigenti del Pci di quegli anni, sentitisi scorticati dal libro, gli ingiunsero con insistenza: «Ma dillo che è solo un romanzo. Che hai inventato tutto, che è tutta una finzione...». Ecco che letteratura e realtà s’incrociano e i loro contatti generano scintille. Scomparsa nel ricordo, Francesca ha ripreso a vivere un’esistenza letteraria, con la stessa pienezza di un’esistenza reale e una forza inquietante per chi aveva voluto rimuoverla. Potenza della migliore letteratura. Che in parte prosegue in Il caso Piegari (Feltrinelli, 2012), la storia di un altro di quegli irrequieti comunisti napoletani, ricercatore di medicina oncologica. È l’animatore del Gruppo Gramsci, un sodalizio che ha l’ardire di contestare la politica meridionalista del Pci. Con lui è schierato un giovane Gerardo Marotta. Dal conflitto d’idee, Piegari esce distrutto: la fuga da Napoli, l’instabilità nervosa che, nonostante continui la carriera di ricercatore, lo accompagna per la vita.
Anche Il sorriso di don Giovanni (Feltrinelli, 2014) è un romanzo sulla letteratura, vista attraverso un’accanita lettrice, Adele, che mescola la propria esistenza con quel che legge: «Il fatto è che io i libri li vivevo dal di dentro », confessa, «spesso m’intrufolavo nelle trame, mi facevo io stessa personaggio dell’intreccio ». E ancora: «A che cosa servono i romanzi se non a spogliarti del tuo piccolo ego per farti assumere il peso di ciò che non ti appartiene ma che, a furia di leggere, si fa carne della tua carne?». Perché, in fondo, «i buoni libri moltiplicano la vita». E questa idea lascia di sé Ermanno Rea, scrittore approdato tardi alla letteratura e che alla letteratura affida il compito di rendere più vera la vita stessa.