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 2016  settembre 13 Martedì calendario

La Scala entusiasma il Bolshoi

I magazzini Gum sulla piazza Rossa sono tappezzati con le foto delle precedenti tournée della Scala, a partire da quella mitica del 1964. Iniziava la distensione, portare a Mosca il made in Italy operistico aveva anche un significato politico, Nikita Kruscev dichiarò di essersi commosso ascoltando la Liù di Mirella Freni e, racconta Arbasino, alla cena di compleanno di Wally Toscanini tutti si presentarono con vassoi di éclair perché era l’unico dolce che si trovava nei negozi.
Da allora la Scala è tornata al Bolshoi dieci volte, e il Boshoi alla Scala sei. Ai Gum si trova di tutto e il patron, Mikhail Kuznerovich, perfettamente bilingue, è il grande sponsor della tournée attuale, iniziata sabato con il Simon Boccanegra e proseguita con la Messa da Requiem, insomma i sempreVerdi da esportazione più tipicamente scaligeri (più un concerto della Filarmonica, anche quello con programma autarchico). E certo, per come lo si ricordava, bolscevico-franante, attenti a non attaccarsi troppo ai velluti perché si staccano, il glorioso teatrone moscovita risulta oggi irriconoscibile.
Il solito radicale restauro postsovietico gli ha ridorato lo spendore, forse perfino esagerando perché davanti agli ori sberluccicanti ci vogliono gli occhiali scuri. Cambiato anche il sipario, e qui è un peccato perché una volta era rosso con pazzeschi falci & martelli dorati, ma insomma anche i simboli sono importanti e infatti sono tornate le aquile bicipiti sul palchettone zarista.
Il pubblico, poi, è sorprendente. Si pensava di incontrare i soliti nouveaux riches russi molto overdressed, quelli che alla Scala le maschere placcano mentre tentano di portarsi in sala lo champagne. Invece è una platea di melomani «normali», appassionati e ovviamente eccitati dall’arrivo della griffe musicale italiana più celebre, con file al botteghino e babushke che davanti agli ingressi ti chiedono se per caso non hai un biglietto da vendere.
I complessi della Scala non arrivavano da Milano, ma da Corea, Cina e Giappone, mentre il balletto sta facendo lì un’altra tournée e al Piermarini «vero» si replica Il flauto magico e debutta Il giro di vite. Si lavora, insomma, ottima cosa perché i nostri teatri costano al contribuente anche se restano chiusi. E si lavora bene, con la tappa moscovita a certificarne l’attuale stato di forma.
Per il resto, business as usual. Che Myung-Whun Chung diriga il miglior Simone dai tempi di Abbado, lo si sapeva; idem che lo spettacolo di Federico Tiezzi non sia granché, oltretutto rimontato con modifiche evidentemente imposte dalla tecnica. Canta, inossidabile e inarrestabile, il glorioso Leo Nucci (che fatica, però); bene la coppia degli innamorati Carmen Giannattasio e Fabio Sartori, molto male il Fiesco impossibile di Mikhail Petrenko, ma insomma un basso russo ci voleva e quello buono, o meno cattivo, Dmitry Beloselsky, è stato spostato sulla Messa.
Questa è stata non solo diretta ma magnificamente concertata da Riccardo Chailly, un Requiem lirico e spoglio, incantato (il «Sanctus» leggerissimo e quasi danzante) ma drammatico, senza le pesantezze bombastiche che troppo spesso ci vengono inflitte. Sugli scudi Francesco Meli, intensissimo nell’«Ingemisco» e addirittura toccante nell’«Hostias», e il Coro magnifico di Bruno Casoni.
Maria José Siri è brava e un po’ tesa, Daniela Barcellona non troppo in forma, Beloselsky interessato solo a ostendere il vocione. Dedica e minuto di silenzio (senza l’odioso applauso finale, bravi) per il terremoto dell’Italia centrale. Alla fine, l’applausometro segna undici minuti per l’opera e otto e mezzo per la Messa. Intanto al Museo Pushkin si apre una mostra di Raffaello, a seguire quella su Piranesi. Verdi, Raffaello, la Scala, Piranesi: si chiama civiltà italiana e il mondo continua ad averne molto bisogno.