La Stampa, 13 settembre 2016
Come si pulisce un oceano?
Esiste un modo per ripulire il mare da plastica e petrolio? A dispetto del pessimismo generale, c’è chi ci sta già provando. Lo studente olandese Boyan Slat ha avuto un’idea per molti geniale: un sistema di barriere galleggianti che, installate in mare aperto, raccolgono la plastica sfruttando le correnti.
«The Ocean CleanUp», questa la società fondata dal giovane imprenditore nel 2013, conta già 50 tra ingegneri e ricercatori, partiti un anno fa per una spedizione attraverso il «Pacific Trash Vortex», l’immensa chiazza di immondizia che galleggia tra Hawaii e California. A giugno è stato installato un prototipo lungo 23 chilometri nel Mare del Nord, al fine di testare la resistenza delle barriere in condizioni climatiche difficili. «The Ocean CleanUp» mira infatti a trasferirle nel Pacifico nel 2020 e in vista dell’ambizioso obiettivo invierà a breve una missione aerea per misurare le superfici inquinate con maggiore accuratezza.
L’esperimento divide già gli esperti: secondo uno studio dell’Imperial College di Londra, infatti, l’operazione sarebbe più efficace se attuata a partire dalle coste. Nell’attesa di una risposta univoca sull’argomento ognuno di noi può contribuire nel suo piccolo: scaricando l’applicazione «The Ocean Cleanup Survey», chi si trova in mare può aiutare a localizzare i detriti.
Una proposta dagli obiettivi simili, su scala minore, è invece «The Seabin Project»: un cestino realizzato in materiale sostenibile che convoglia rifiuti galleggianti come gomma, olio, carburante e detergenti, pensato per porti, corsi d’acqua, laghi e barche private. I due ideatori del progetto, i surfisti australiani Andrew Turton e Pete Ceglinski, assicurano che in quattro anni di test non è mai capitato di catturare pesci al posto della plastica, con buona pace degli ambientalisti. Il porto francese di La Grande-Motte ha avviato una sperimentazione lo scorso marzo e l’inizio della produzione su scala mondiale è prevista entro la fine dell’anno. È però già possibile preordinare i Seabins sulla piattaforma Indiegogo, per un costo di 3.825 dollari.
Buone notizie anche dalla Sardegna, dove l’azienda Edizero dell’imprenditrice Daniela Ducato, in collaborazione con l’Università di Cagliari, ha brevettato i «Salvamare Geolana Seacleanup», nuovi tessuti rinnovabili provenienti dagli scarti dell’agro-alimentare sardo. La fibra «mangiapetrolio» è in grado di assorbire e biodegradare idrocarburi petrolchimici e altri agenti che inquinano le acque marine. Realizzata in pura lana vergine di pecora sarda e sugherone, è concepita per la gestione sostenibile di porti, stabilimenti balneari, aree costiere e di pesca, siti industriali. E il metodo sembra davvero innovativo: basti pensare che un chilo di lana arriva ad assorbire fino a 17 chili di oli e inquinanti oleosi. Se l’uomo è ciò che mangia, è bene trattare bene i pesci.