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 2016  settembre 13 Martedì calendario

Le Carré racconta Le Carré. Oggi esce l’autobiografia della spia che è diventata scrittore per caso

Sono uno scrittore che per caso è stato una spia. Non una spia che per caso è diventato uno scrittore. Così dice di sé John Le Carré nella sua autobiografia Tiro al piccione, da oggi in tutte le librerie italiane per Mondadori (pp. 320, € 20). Un libro affascinante, ricco di ironia, che però per quanto riguarda la sua attività di agente segreto nulla aggiunge a ciò che «imprecisamente» già è stato detto da altri scrittori. Per due ragioni. Primo, per lealtà verso i Servizi segreti per cui ha lavorato. Secondo, perché aveva garantito a coloro che avevano collaborato con lui che la promessa di riservatezza fatto loro doveva valere per sempre.
Tiro al piccione, più che un’autobiografia, è il romanzo di una vita, dall’infanzia fino al momento in cui Le Carré scrive le sue memorie, armato come sempre di carta e penna. «Amo scrivere», confessa: in treno, nei caffè, su una panchina a Hampstead Heath. E scrive benissimo, da grande romanziere, come almeno una parte della critica si è finalmente decisa a riconoscere (ma Philip Roth lo aveva già detto trent’anni fa).
Il padre di Le Carré era un truffatore, un elegante e affascinante imbroglione che con la malavita aveva avuto a che fare solo tangenzialmente (come anche con la galera). Ogni tanto lo picchiava, ma non spesso e «senza convinzione». In compenso picchiava sistematicamente sua madre, che se ne andò di casa quando lui aveva 5 anni. La rivide per la prima volta quando di anni ne aveva 21.
Da lì a non molto venne assunto dai Servizi. Fu proprio su suggerimento di un superiore che scrisse il suo primo romanzo di spionaggio, Chiamata per il morto. E poi venne il libro che divise la sua vita in «un prima e un dopo», La spia che venne dal freddo. Fu un successo travolgente, rinnovato dall’uscita del film che aveva come protagonista Richard Burton, un attore che le Carré apprezzava moltissimo. Quasi quanto Alec Guinness, che divenne il volto televisivo di Smiley, l’agente segreto di La talpa.
Magistrale è il racconto dell’incontro al ristorante tra lui, Guinness e un vecchio funzionario dei Servizi, che per la verità non stimava molto Le Carré. L’attore assente compostamente alle affermazioni del funzionario. In realtà lo studia: quando questi se ne va, Guinness chiede a Le Carré se è normale che gli agenti segreti abbiano ai polsini gemelli così pacchiani, scarpe scamosciate arancione e l’abitudine di camminare impettiti brandendo in avanti l’ombrello. Queste due ultime caratteristiche diventarono segni distintivi dello Smiley di Guinness. La sommessa accusa di screditare i Servizi, che il funzionario muoveva a Le Carré, servirono invece a Guinness a fornire al personaggio quella componente di senso di colpa che l’attore attribuiva allo stesso Le Carré.
Gli incontri e le esperienze del romanziere sono ricostruiti con un ironico distacco che ne fa la delizia del lettore. Come quando ricorda di un pappagallo in un hotel di Beirut che imitava perfettamente il suono di un mitra, o dell’arresto del padre durante la festa per il suo secondo matrimonio, o del Capodanno del 1982 con Yasser Arafat, o dello spuntino al Savoy con Rupert Murdoch, che voleva sapere da lui chi aveva ucciso il tycoon dei media Robert Maxwell. Forse i Servizi israeliani, rispose Le Carré, limitandosi a riferire le voci secondo lui più attendibili. Murdoch non fece alcun commento, si alzò, gli diede la mano e se ne andò.
L’incontro più curioso è quello con Maggie Thatcher, che lo aveva invitato a pranzo a Downing Street. Quando gli chiese cosa eventualmente desiderasse da lei, Le Carré chiese comprensione per la causa dei Palestinesi. «Non cerchi di impietosirmi», rispose la Lady di ferro. «Sono loro che hanno addestrato i terroristi dell’Ira che hanno ucciso il mio amico [eroe di guerra e suo consigliere, ndr] Airey Neave». Il primo ministro olandese, che sedeva allo stesso tavolo, disse che non aveva letto nessun libro di Le Carré. Aung San Suu Kyi invece li aveva letti quando era agli arresti domiciliari: «I suoi libri mi aiutarono molto: erano viaggi nel mondo di fuori, che mi facevano sentire di non essere isolata dal resto dell’umanità». Una dichiarazione che vale il conferimento del Nobel. Forse di più.