Corriere della Sera, 13 settembre 2016
Ultime sul duello tra Ue e Apple
La decisione della Commissione europea di chiedere ad Apple il pagamento di 13 miliardi di euro (più interessi) a favore dell’Irlanda è chiaramente senza precedenti; è una mossa che rompe un impasse che esiste da anni e affronta duramente il tema della tassazione delle multinazionali e dell’elusione fiscale internazionale (in particolare nell’economia digitale). Nel nostro Paese la discussione che ne è seguita è stata modesta: con reazioni (pseudo) liberiste contro l’intervento dirigista della Commissione, che esaltano i vantaggi della concorrenza fiscale, oppure sulla sponda opposta con l’elogio dell’attacco ai giganti monopolistici digitali.
Il dato di partenza indubbio è che le multinazionali (non solo digitali) praticano sistematicamente da molti anni una forte elusione fiscale, con il tax planning e gli accordi con gli stati ( tax ruling ). La decisione di Margrethe Vestager – che fa sul serio: per rendersi conto della sua determinazione, vale la pena di vedere il video sul sito della Commissione – di attaccare l’accordo di Apple con l’Irlanda parte da qui: vi sarebbe un vantaggio fiscale concentrato in un solo settore e per una sola impresa, Apple. Ciò v iola la normativa sulla concorrenza Ue.
In sede Ocse, si è recentemente prodotto un documento importante, il Beps (Base erosion and profit shifting) che contiene proposte interessanti. C’è però il rischio che questo approccio resti poco operativo, con poche chances di essere realizzato, soprattutto per l’ovvia opposizione degli Usa. Per questo mi piace e molto per diverse ragioni la mossa di Vestager, al netto delle sue difficoltà politiche e di applicazione.
La decisione della Commissione ha vari aspetti delicati: in primo luogo, la retroattività di 25 anni difficilmente supererà il vaglio della Corte europea; in secondo luogo, la decisione di voler combattere l’elusione partendo dagli aiuti di Stato. Si sovrappongono due piani che hanno sì punti in comune, ma anche differenze operative e normative. Mentre il potere della Commissione in materia di concorrenza è immediatamente operativo, sul piano fiscale esiste la regola dell’unanimità e un’ampia autonomia degli Stat i.
Ma detto ciò, la decisione del Commissario alla concorrenza ci piace perché è il primo vero segnale concreto a livello europeo contro l’elusione fiscale diffusa delle grandi società. Questa decisione rischia di scatenare una guerra fiscale, tra imprese e Stati, sull’attrazione delle basi imponibili. La decisione ha il pregio di ridurre, come dice l’ Economist, la «ginnastica fiscale» delle multinazionali ma è di fatto una «granata» – io direi una bomba. Ma si deve essere onesti: la tax war esiste già e da molto tempo. Non sono più gli Stati a scegliere le basi imponibili ma queste a decidere dove (e se) farsi tassare. Sono all’opera molte «termiti fiscali» che minano il finanziamento dei bilanci pubblici. Le grandi società multinazionali, in particolare digitali, aspirano gettito dai vari Paesi e lo depositano in minima parte nei Paesi a più bassa tassazione, in larga parte nel meccanismo esente del tax deferral. E con lo sviluppo dell’economia digitale, questa tendenza non potrà che rinforzarsi. L’aspetto cruciale è che finalmente si coagula una reazione collettiva, da parte dei governi, forse imperfetta e parziale, all’elusione fiscale delle grandi società. Gli Stati reagiranno inevitabilmente perché in discussione c’è la capacità di tassare le basi imponibili nazionali, quindi il finanziamento del bilanci, le politiche di welfare, la politica economica dei vari governi – se si vuole essere drammatici, la democrazia…
La dichiarazione di Tim Cook, ceo di Apple, in sé anche comprensibile, non è accettabile. È una dichiarazione di promesse di ritorsioni. Lo stesso vale per l’Irlanda – è giusto che non voglia indietro il gettito da Apple perché appartiene all’Italia e agli altri Paesi europei….Le grandi società non solo non pagano in Europa, ma pagano poco pure negli Usa, dove con la tecnica del tax deferral, parcheggiano a tempo indefinito i profitti all’estero (enormi somme esenti), spesso in paradisi fiscali. È impossibile credere che non abbiano immaginato che prima o poi qualche governo avrebbe contestato gli enormi vantaggi fiscali di cui godono e reagito. Pagare l’1% o il 5 per mille sui profitti non è la stessa cosa del 30 % e oltre che pagano le altre imprese nei vari Stati, o il 30-40% che grava in media sui redditi personali. Oltre all’autonomia degli Stati nel tassare le basi imponibili, c’è qui un’ovvia questione di equità tra contribuenti e di giustizia fiscale. Pensare di aggirare del tutto o in larga parte l’obbligo di contribuire al finanziamento di un Stato ha un carattere eversivo. La messa in discussione dei tax ruling è un primo passo per sistemi fiscali più giusti ed equilibrati.