la Repubblica, 13 settembre 2016
Dalla scorta all’assalto dei media, Virginia Raggi deve fare i conti con la realtà (senza assessore al Bilancio)
Perché la protezione di chi ha un ruolo istituzionale non è un privilegio auto-concesso ma il doveroso obbligo di un Paese civile. Questo è il caposaldo intorno al quale si può invece provare a ragionare sul perché la pubblicazione delle foto della sindaca accompagnata dalla scorta in un momento privato abbia suscitato tanto clamore.
Negli ultimi anni, purtroppo, il nostro dibattito pubblico è scivolato su un terreno sempre più melmoso, nel quale – l’esperienza insegna – alla fine rimangono impantanati anche coloro che fino al giorno prima hanno contribuito a sporcarlo. Vincendo a Roma, il M5S è stato assalito dal principio di realtà: il sindaco della capitale d’Italia non può fare a meno della scorta. Una verità elementare che però entra in cortocircuito con la vulgata anti-casta che M5S ha propalato per anni, con la compartecipazione di settori dell’establishment e di altre forze politiche in cerca di dividendi nel florido mercato dell’anti-politica («La mia scorta è la gente», è capitato di dire al presidente del Consiglio Matteo Renzi, non lontano dal Beppe Grillo che sul suo blog tuonava: «Nessun politico dovrebbe avere la scorta»).
Quando il principio di realtà si impone, e le contraddizioni si rivelano per tali, la tentazione cui bisogna resistere è quella di esultarne. Lo sforzo, piuttosto, quello di tirarci tutti fuori dal circolo vizioso. Si prenda il caso Muraro.
Lasciamo stare le omissioni dei vertici M5S e di Raggi stessa sullo status di indagata dell’assessora, che rappresentano il vero vulnus, e andiamo al merito della vicenda. All’improvvisa scoperta del garantismo da parte dei grillini su Muraro si può reagire in due modi: invocando una loro coerenza giustizialista senza se e senza ma, con il risultato di precipitare ancora più in basso il livello della nostra convivenza civile, o provare a cogliere l’occasione per piantare dei paletti che difendano un altro principio rinnegato da lustri, e cioè che le autonome decisioni della politica non possono diventare una mera appendice del codice di procedura penale.
Sono altre le questioni su cui è bene pretendere coerenza da Raggi. La sindaca si lamenta dell’assedio dei cronisti sotto casa. Anche i politici, nel limite delle sovrane esigenze della cronaca, hanno il diritto di reclamare spazi di privacy. Non hanno invece il diritto di sottrarsi alle domande – Raggi non ha convocato una sola conferenza stampa dal giorno della sua vittoria – né quello di decidere a proprio piacimento quando prestarsi alle luci dei riflettori. Anche la legittima rivendicazione di Raggi – tenere fuori il figlio dalle questioni che riguardano il suo ruolo pubblico – suonerebbe incontestabile se la sindaca non avesse deciso di posare con lui sullo scranno dell’aula Giulio Cesare il giorno del suo insediamento.
Non c’è nulla di casuale o sfortunato nelle disgrazie che stanno accompagnando l’esordio di Raggi alla guida di Roma. C’è sempre, ancora lui, il principio di realtà.
Quando ci si vanta di aver composto una giunta senza politici (vanto, pure questo, che i grillini non sono i soli ad aver menato in questi anni) si dovrebbe capire che in quel presunto merito si annida una dichiarazione di debolezza.
M5S non ha saputo né voluto portare un proprio esponente a caricarsi della fatica di governare Roma dentro la giunta e oggi, consumati i primi due assessori tecnici al Bilancio, scopre che i bravi amministratori non si trovano sulle piattaforme on line. Li producono solo partiti che riconoscono di essere tali e accettano la propria funzione di mediazione. Girare con la casacca dei “portavoce dei cittadini” regge finché si protesta in piazza contro le scorte dei politici o gli indagati in Parlamento, meno se bisogna far quadrare il debito di Roma.