Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2016
Sull’estetica dello stadio
Rispetto agli spettatori, cioè chi osserva gli eventi atletici e vi prende parte non professionalmente, è strabiliante che oggi i nostri stadi siano più pieni che mai – per quanto, guardandolo in tv, vediamo e capiamo un qualsiasi evento atletico infinitamente meglio che dal vivo. Benché stadi tutti esauriti si inscrivano nel più ampio desiderio contemporaneo di prender parte ad assembramenti di decine di migliaia di corpi umani – un desiderio che dà conto anche dei cosiddetti «eventi di visione pubblica», delle messe all’aperto celebrate dal Papa, dei concerti rock in spiaggia – possiamo senza tema presumere che le folle negli stadi siano sintomo del nuovo desiderio collettivo di rituali e cornici sociali “a cui aggrapparsi”.
Citando la vecchissima autodescrizione della Cristianità come «corpo mistico di Cristo», mi piace far riferimento alla sostanza di tali rituali come «corpi mistici» (secolari), in modo tale da sottolineare che, a differenza dei concetti tipicamente moderni di sociabilità basata esclusivamente su interessi o condizioni di vita condivise («società», «classe», «club») e come contrappeso all’esistenza individuale sottoposta al fardello della costante libertà di scelta, le folle includono ed enfatizzano la nostra esistenza come corpi umani. Ecco come ci forniscono un’impressione di concretezza e necessità: con la sensazione di avere davvero “qualcosa a cui aggrapparci”.
Simili ad alcuni altri fenomeni organici, soprattutto su scala microscopica, i corpi mistici allo stadio possono prendere forme diverse. Possono consistere – specialmente nei momenti in cui il flusso dell’evento atletico viene interrotto o deviato –di tutti gli spettatori meno gli atleti in gara (questi sono i momenti in cui la “ola”, in quanto forma prodotta collettivamente, diventa un sintomo di allegra noia); possono spaccarsi in due corpi antagonisti, quando i giocatori di una squadra e i suoi tifosi fronteggiano i giocatori di un’altra squadra e i loro tifosi (qui, ovviamente, si annida il massimo rischio di violenza); infine, ci sono quelle rare e quasi sempre sublimi istanze in cui tutti gli atleti e tutti gli spettatori diventano un solo corpo, che si adatta alla forma architettonica dello stadio.
C’è una buona probabilità (molto più alta con i tradizionali tifosi squattrinati che con gli habitué delle nuove lounge per vip) che i ritmi dei movimenti, delle parole e delle canzoni collettive possano dare ulteriori forme interne alle folle come corpi mistici. In quanto incarnazione di un ritmo, ciò abbasserà, per usare un concetto creato da Husserl, la “tensione di coscienza” individuale di coloro che stanno nella folla, così come ridurrà al minimo la loro capacità individuale di agire (foss’anche dovuto soltanto alla mera impossibilità di avere pieno controllo del proprio corpo in tanto stretta prossimità con tanti altri corpi).
Una minore tensione di coscienza e una ridotta capacità di agire sono ovviamente le due ragioni principali della cattiva reputazione delle folle (o dei corpi mistici) fra gli intellettuali e gli altri eredi dell’Illuminismo. Come contrappeso positivo, voglio invocare tanto l’irripetibile intensità dell’esperienza vissuta cui si possono elevare i corpi mistici quanto la serenità collettiva che talvolta agglomerano (il termine «Gelassenheit», equivalente tedesco di «abbandono», cioè «la capacità di lasciar-essere», rende molto più chiaro cosa c’è in palio).
Parte della particolare intensità dell’esperienza dello stadio, che sentiamo talvolta ancor prima che l’evento atletico abbia effettivamente inizio, può avere a che fare con la struttura del contrasto, su cui abitualmente si sorvola, per quanto reiterata. È decisamente notevole in questo contesto che, negli ultimi venti o trent’anni, gli stadi abbiano iniziato a tornare dalle periferie delle città a quartieri più centrali, a zone dove edificare costa più caro – per quanto gli stadi vengano utilizzati soltanto in pochi e limitati momenti. Tali collocazioni hanno l’effetto di sottolineare il doppio contrasto fra, in primo luogo, la fretta del centro nell’ora di punta e uno stadio vuoto; e, in secondo luogo, lo stadio per lo più vuoto e quei momenti in cui è pieno di azione ad alta intensità e del corpo mistico di una folla.
Lo stesso tema emerge nel contrasto fra il campo come scena del gioco e il campo vuoto prima e dopo il riscaldamento degli atleti, nell’intervallo, dopo la partita. (…)Se vogliamo, possiamo sussumere ciò che sembra specifico dell’esperienza dello stadio nella nostra descrizione dell’emergenza storica dell’esperienza estetica.Chiamarla «estetica» ci aiuta a capire perché molti di noi trovano irresistibilmente affascinante l’esperienza dello sport. Una possibile onnipresenza di ciò che chiamiamo ancora «esperienza estetica» sarebbe ovviamente la fine del suo status specifico. Significa che c’è una tendenza dello sport a finire per diventare sinonimo del mondo? Non proprio, ovviamente – anche se senza dubbio lo sport occupa più spazio e tempo oggigiorno che in qualsiasi precedente forma di cultura umana. Così, per sopravvivere come dimensione specifica della vita, sarebbe bene che lo sport continuasse a sottolineare i propri tradizionali confini di autonomia.