La Stampa, 11 settembre 2016
Toti e Parisi: quando le opposizioni più efficaci stanno sempre all’interno
Forse immemore dei suoi (recenti) esordi in politica, il governatore della Liguria, Giovanni Toti, non pare entusiasta dell’arrivo di Stefano Parisi alle sommità di Forza Italia.
«Nessuno ha il diritto di sedere in prima fila, nemmeno quelli arrivati per ultimi», ha detto, chissà se ispirato dalle affettuosità ricevute dagli attendenti forzisti privati dell’osso quando toccò a lui, due anni e mezzo fa, essere impalmato da Silvio Berlusconi. Com’è bizzarra la vita: allora Toti trovava «ozioso» il dibattito sulle primarie, tanto il consenso l’aveva il Capo e contava soltanto la sua volontà; oggi la volontà di Berlusconi è argomento laterale, e tornano al centro le primarie o «le secondarie» (ironia di Toti), perché «qualcosa ci dobbiamo inventare per capire chi ha veramente consenso». Almeno quello di Parisi va misurato, visto che non si misurò quello di Toti. «Esiste solo la leadership di Berlusconi», ha aggiunto Renato Brunetta, uno strutturalmente impreparato a sottomettersi ad altri che non siano il Sommo. E così, appena riconquistato il Mattinale (organo di propaganda che pochi mesi fa era stato sottratto al medesimo Brunetta perché troppo vivace e incontrollabile), ci ha messo una deliziosa rubrichetta per ipotizzare che, come una volta Angelino Alfano, anche Parisi è senza quid. Opinione attorno alla quale si sono curiosamente compattati tutti i gerarchi, solitamente più litigarelli, e però armati di un coraggio sufficiente, come da tradizione, per prendersela con Parisi e non con chi l’ha messo lì: Berlusconi.
La storia conferma ed esalta un ’abitudine della politica italiana: le opposizioni più efficaci stanno sempre all’interno. Del Partito democratico sarebbe quasi inutile parlare: si fa fatica a trovare un socio fondatore che non sia contro il premier e segretario, Matteo Renzi. Vale per Pierluigi Bersani e per Enrico Letta, e il fuoriclasse è Massimo D’Alema, uno che proprio non ce la fa a dissimulare: organizza comitati per il no al referendum istituzionale, il presupposto dichiarato è l’apprensione per il funzionamento dei meccanismi democratici, la rassicurazione è che nessuno vuole creare correnti o scalare la segreteria, ma è inutile, subito dopo viene fuori l’obiettivo principale, o almeno parallelo. «La vittoria del no segnerà la fine del partito di Renzi e del partito della Nazione», ha detto D’Alema meno di una settimana fa in un cinema romano. E intanto, in platea, le truppe dalemiane si fregavano le mani pregustando il 25 luglio del «Duce fiorentino». Si capirà il clima in un partito di sinistra dove al leader si attribuiscono i titoli del capo del fascismo.
Fin qui, però, saremmo soltanto al millesimo episodio di una sit-com, se non fosse per il benvenuto che tocca dare al Movimento cinque stelle, dove peraltro è difficile individuare chi si oppone a chi. Per esempio, è Virginia Raggi ad essere all’opposizione dei vertici nazionali e cioè di Beppe Grillo, o è Beppe Grillo a essere all’opposizione del sindaco di Roma, cioè Virginia Raggi? E chi è l’ortodosso e chi il deviazionista dentro a direttòri e minidirettòri, i cui membri si disputano la supremazia, chi è il traditore fra assessori resistenti e assessori in fuga, chi è il puro fra Luigi Di Maio che difende la giunta e il divulgatore di mail che inguaiano lo stesso Di Maio? Un giorno si capirà meglio l’evoluzione della politica attraverso la fisiologia grillina, priva di baricentri ideologici o gerarchici, e cioè la condizione perfetta – lo si può già dire – per un popolo capace di fare una sola guerra, quella civile.