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 2016  settembre 11 Domenica calendario

Dai sei mesi a un anno: ecco quanto tempo ha perso (e perderà) Federico Rampini per sottoporsi ai controlli in aeroporto

Ciascuno di voi può farsi i conti su misura, io li ho fatti. La mia vita è stata accorciata: dai sei mesi a un anno. È una stima del tempo che ho già perso e continuerò a sprecare in fila per i controlli di sicurezza negli aeroporti, o in altri luoghi pubblici protetti. Nomade globale per mestiere, facendo una dozzina di voli intercontinentali all’anno, e molti più all’interno degli Stati Uniti, posso misurare tra le conseguenze dell’attacco di quindici anni fa l’accorciamento della mia speranza di “vita utile”. Niente di drammatico, certo, rispetto alle tremila vite distrutte l’11 settembre 2001, più le molte altre vittime: i seimila soldati morti e i quarantaquattromila feriti solo fra le truppe americane in Afghanistan e in Iraq; il bilancio di morti e feriti molto superiore tra le popolazioni di quei paesi. E ancora: fra i due milioni di nuove reclute entrate nelle forze armate Usa dopo l’11 settembre e spedite al fronte, il 18 per cento soffrono di sindromi depressive o da stress post- traumatico, fra loro sono più alti i suicidi, gli omicidi, la violenza domestica. Il costo umano della militarizzazione dell’America è quasi incalcolabile. Un caso fra tanti: l’autore di una delle ultime stragi “non terroristiche”, il cecchino che a Dallas ha ucciso cinque poliziotti il 7 luglio, era un reduce dell’Afghanistan.
Ma anche la maggioranza dei civili conosce un “prima e un dopo”, nella routine quotidiana. Abbiamo dovuto adattarci a cento piccoli cambiamenti, che rendono diversa la nostra vita. C’è chi ha cancellato interi paesi dalle proprie destinazioni di viaggio. Tutti abbiamo imparato per forza un nuovo abc della sicurezza. Il viaggio aereo non è l’unico esempio ma uno dei più eclatanti. Ricordo quando nell’America pre-11 settembre l’aereo era per noi come un autobus. Paese di grandi distanze, aeroporti ubiqui, tariffe basse, treni scadenti: perciò andavamo all’aeroporto di continuo e facilmente. Mezz’ora di anticipo sulla partenza di un volo domestico era sufficiente. Con l’eccezione di pochi scali iper-congestionati (Jfk, Chicago, Los Angeles). I controlli al metal detector erano leggeri, rilassati, veloci. Un parente o un amico potevano accompagnarti fino all’imbarco, non occorreva biglietto. Nessun documento d’identità richiesto. I controlli erano stati allentati rispetto agli anni Settanta (l’unico periodo in cui l’America soffrì qualche dirottamento); non a caso Al Qaeda ebbe il compito facile. Lo shock dell’11 settembre ha provocato reazioni a catena, anzitutto la costruzione di un apparato di sicurezza gigantesco, ipertrofico, invasivo, costosissimo. Con ramificazioni in molte direzioni: dal costo per il contribuente alle violazioni della nostra privacy, dai disagi quotidiani agli abusi contro i diritti umani. E una domanda angosciante: tutto questo ci ha reso più sicuri?
La costruzione dello Stato di polizia cominciò subito: nel 2002 il Congresso di Washington votava il consolidamento di ventidue agenzie federali nel nuovo Department of Homeland Security, un super-ministero dell’Interno di dimensioni mai viste nella storia di una liberal- democrazia in tempo di pace. Operazioni analoghe sono avvenute a livello locale: il solo New York Police Department oggi ha una task force di mille agenti nel Counter- terrorism Bureau, e si è dotato della propria agenzia di intelligence. La spesa pubblica per la prevenzione antiterrorismo è salita del trecento per cento, oltre i settanta miliardi di dollari annui. I soli aeroporti spendono fino a dieci miliardi l’anno di apparecchiature elettroniche per la sicurezza. Per operare i controlli sempre più dettagliati e invasivi in quattrocentocinquanta aeroporti americani (via le scarpe oltre a giacche e cinture, fuori i computer dalle borse, gettare liquidi e aerosol) è stato assunto un piccolo esercito che quasi non esisteva: sessantamila dipendenti della Transportation Security Administration hanno sostituito i pochi addetti (per lo più privati) pre-11 settembre. Il conto è stato pagato in parte con sovrapprezzi sempre più alti sui biglietti aerei (da un miliardo di dollari di “security fee” nel 2002 a più di 3,5 miliardi oggi) in parte con le nostre tasse.
L’elenco dei cambiamenti “banali” che hanno stravolto le nostre routine può continuare. Ogni ufficio pubblico, molte sedi aziendali private, hanno investito in apparati di sicurezza e controlli agli ingressi, che non c’erano prima. Tante scuole e università hanno affiancato le esercitazioni di allerta terrorismo alle simulazioni di incendio o terremoto. I medici degli ospedali urbani hanno dovuto imparare a curare ferite che un tempo erano tipiche solo dei teatri di guerra. Naturalmente ci sono sprechi, è cresciuta un’industria della sicurezza interna, rapace e politicamente potente come il complesso militar-industriale durante la Guerra fredda. Un esperto della materia, Steven Brill, ha stimato a centocinquanta miliardi l’anno i soldi del contribuente gettati via in programmi di sicurezza fallimentari.
L’impatto più generale sulla nostra vita quotidiana è quello che deriva da una “visione del mondo” post-11 settembre. Abbiamo accettato di introdurre modifiche nel contratto sociale collettivo. Un presidente democratico come Barack Obama ha aumentato le espulsioni di immigrati fino a un record di quattrocentomila all’anno (senza impedire l’ascesa dello xenofobo Donald Trump). La legge del Patriot Act ha fatto arretrare le tutele dei diritti civili. Ogni anno la National Security Agency viola cinquantaseimila email di cittadini che non hanno nulla che fare con il terrorismo, come hanno rivelato i responsabili dell’intelligence dopo le denunce di Edward Snowden.
Il prezzo che paghiamo, ci rende almeno più sicuri? Di certo non abbiamo più avuto un solo attentato del livello di quell’11 settembre di quindici anni fa. Quelli successivi hanno fatto molte meno vittime; quasi nessuno ha preso di mira (in America) gli aeroporti. Ricordo i più recenti. Maratona di Boston, 15 aprile 2013: tre morti e duecentosessantaquattro feriti. Un istituto per disabili a San Bernardino, California, 2 dicembre 2015: quattordici morti e ventidue feriti. Un nightclub gay a Orlando, Florida, 12 giugno di quest’anno: quarantanove morti e cinquantatré feriti. La natura degli attacchi è cambiata. L’Is ispira, non organizza meticolosamente come Al Qaeda. Abbiamo a che fare con lupi solitari, oppure coppie di fratelli o di coniugi. Auto-indottrinati su internet, o in occasione di viaggi all’estero. La capacità di terrorizzare rimane. E l’imponente arsenale, che noi abbiamo accumulato per proteggerci, come sempre è fatto per combattere il nemico di una volta, non quello attuale.