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 2016  settembre 11 Domenica calendario

Putin è sempre più forte

L’America è alle prese con un paradosso Putin. L’accordo sulla Siria sboccia proprio al culmine delle polemiche sulle interferenze di Mosca nella campagna elettorale Usa. L’Fbi ha aperto indagini sulle incursioni degli hacker russi negli archivi del partito democratico, i furti delle email di Hillary Clinton. Non solo la candidata ma anche diverse fonti dell’Amministrazione Obama hanno puntato l’indice contro Putin, sospettandolo di fare un gioco sporco a favore di Donald Trump; quest’ultimo contraccambia moltiplicando le sue dichiarazioni di ammirazione per l’autocrate russo. Ma dopo l’intesa sulla Siria tra il segretario di Stato John Kerry e il suo omologo ministro degli Esteri russo Sergeij Lavrov, si direbbe che “l’attrazione fatale” verso l’uomo forte di Mosca non sia un’esclusiva di Trump. In ogni caso questa intesa conferma un ritorno di centralità del vecchio rivale russo, almeno su alcuni scacchieri strategici come il Medio Oriente (e in parte l’Europa). Lo demonizzano, e al tempo stesso hanno bisogno di lui? L’annuncio dell’accordo Kerry-Lavrov, con tutte le cautele che lo accompagnano, rende un po’ meno stravagante la visione di Trump: il candidato repubblicano ha sempre detto ad alta voce che il “lavoro sporco” contro lo Stato Islamico va delegato a Putin, e ne ha elogiato i metodi duri applicati in Cecenia.
Prima di attribuire un’importanza eccessiva all’annuncio di Kerry-Lavrov, bisogna ricordare che un analogo tentativo di accordo fallì miseramente a febbraio. Potremmo essere alla vigilia di un secondo flop. E non sarebbe certo una buona notizia per la popolazione di Aleppo, e altre vittime inermi dei bombardamenti di Assad. Perché il nucleo duro dell’intesa, o almeno la sua parte migliore, semmai dovesse funzionare, è proprio questa: la Russia dovrebbe limitare l’azione di Assad, soprattutto della sua aviazione, che ha continuato a fare stragi fra i civili.
Va ricordato che la situazione attuale è il frutto di un investimento che Putin fece un anno fa. Fu in coincidenza con l’assemblea generale dell’Onu a fine settembre 2015, che il presidente russo si fece avanti con la sua proposta. In estrema sintesi, disse all’Occidente (e innanzitutto a Barack Obama): voi non avete capito qual è la posta in gioco in Siria; il vero nemico è l’Isis; indebolire Assad fa il gioco dei jihadisti. Seguiva il corollario: ora vi faccio vedere io come si fa. Poco dopo l’assemblea generale dell’Onu ci fu l’annuncio dell’intervento militare russo, accolto con riserve e diffidenze infinite dagli americani. Da allora hanno continuato a scontrarsi due narrazioni opposte sull’accaduto. Putin attribuisce all’intervento militare russo i rovesci subiti dallo Stato Islamico. Gli americani sostengono invece che la Russia ha soprattutto puntellato il regime di Assad; che ha spesso bombardato le milizie sostenute dall’Occidente, quelle che vorrebbero liberare la Siria sia da Assad che dall’Isis. Per Washington Assad è la causa originaria della guerra civile, non può essere lui la soluzione. Le atrocità commesse dal dittatore di Damasco hanno contribuito all’ascesa dell’Isis. Anche se da tempo Obama ha rinunciato a porre come pregiudiziale la cacciata di Assad, tuttavia non è disposto a sposare la visione russa secondo cui l’attuale governo di Damasco va rafforzato per fare piazza pulita dei terroristi. L’accordo Kerry-Lavrov, se dovesse funzionare, accantona la questione del destino di Assad; ne limita l’aggressività; accelera la resa dei conti contro l’Isis.
Resta che per Putin è già una mezza vittoria, se si considera il punto di partenza di un anno fa quando il ruolo russo in quell’area era molto più marginale. Qui l’America sconta un limite che si è auto-imposta. È lo slogan “No boots on the grounds”, niente scarponi americani sul terreno. È il rifiuto di Obama di farsi trascinare in un’altra guerra mediorientale, dopo avere quasi mantenuto la promessa di chiudere quelle aperte dal suo predecessore (Afghanistan, Iraq), e dopo aver considerato un errore l’appoggio alla dissennata guerra franco-britannica in Libia. Questo principio di non intervento terrestre, non solo è coerente con la prima regola d’oro della dottrina Obama in politica estera (il celebre “don’t do shit” che possiamo eufemisticamente tradurre nel “non fare idiozie”) ma riscuote anche un consenso maggioritario tra gli elettori. Trump da parte sua vi aggiunge un sovrappiù di isolazionismo. E il culto dell’Uomo Forte, in questo caso Putin, da usare come un capo mercenario. La storia insegna però che quando gli imperi cominciano ad affidarsi ai mercenari stranieri, spesso perdono il controllo sui risultati finali.