Corriere della Sera, 11 settembre 2016
Le idee che mancano alla crescita
La flessione degli investimenti delle imprese, iniziata otto anni fa, non si è ancora invertita: nel 2015 gli investimenti in macchine e attrezzature erano ancora 3,5 punti di Pil (circa 54 miliardi di euro) inferiori al livello raggiunto prima della crisi. Nel frattempo in Francia e in Germania erano tornati ai livelli pre-crisi. Sul totale degli investimenti delle nostre imprese le spese per «prodotti dell’attività intellettuale» (cioè innovazione) sono il 16 per cento del totale, contro il 24 per cento in Francia. Fatto 100 il livello dei fondi investiti in innovazione nel 2007, nei principali Paesi dell’euro il livello oggi è 120, in Italia è fermo a 100. Senza investimenti, e in particolare senza investimenti in innovazione, è difficile che la produttività delle imprese aumenti, e senza guadagni di produttività non ci può essere crescita duratura.
Se chiedete a un imprenditore perché non investe, otterrete tre risposte: le banche non ci fanno credito, la tassazione è insopportabile e comunque non sapremmo a chi vendere perché non c’è abbastanza domanda. Dopo due anni di tassi di interesse pari a zero e in un mercato finanziario che la Banca centrale europea inonda di liquidità, l’accesso al credito è oggi l’ultimo dei problemi: le banche – almeno quelle solide, cioè con sufficiente capitale – non sanno più che fare del denaro con cui la Bce paga i titoli pubblici che acquista, 10 miliardi di euro al mese solo in Italia. La tassazione sulle imprese è elevata. È vero. L’ultima legge di Stabilità prevede una riduzione dell’Ires dal 27,5% al 24%.
Q uest’anno è stato introdotto il super ammortamento al 140% per investimenti in nuovi beni strumentali e materiali. Allo studio c’è una revisione dell’Ace, per favorire la capitalizzazione delle imprese, e l’introduzione della nuova Iri (imposta sul reddito dell’imprenditore) con prelievo che avverrebbe all’atto dell’incasso del credito o del pagamento del debito. Ma si tratta di una discesa ancora troppo lenta.
Rimane l’obiezione che non c’è domanda. Questo è vero in aggregato: nei Paesi dell’euro la domanda arranca. Ma ciò che è vero in aggregato non lo è per la singola impresa. Certo, se vende sempre gli stessi vecchi prodotti, il suo fatturato non può crescere più della domanda aggregata, ma chi innova ha l’opportunità di conquistare nuove quote di mercato sottraendole a chi è rimasto fermo. Nokia ad un certo punto smise di innovare e la sua quota nel mercato dei cellulari (dieci anni fa la più grande al mondo) andò tutta ad aumentare le vendite di Apple e Samsung.
La singola impresa, innovando, può creare la propria domanda. Domanda e offerta non sono vincoli indipendenti. Agendo sull’innovazione si possono creare nuovi spazi di domanda. E di questo beneficia tutta l’economia. Il problema è che le nostre imprese, soprattutto le più piccole, e sono la maggioranza, non investono in innovazione.
Perché lo Stato non le aiuta? Non servirebbe, anzi. Un’indagine sulle imprese industriali effettuata alcuni anni fa dalla Banca d’Italia domandava alle imprese percettrici di un sussidio agli investimenti che cosa avrebbero fatto in mancanza del sussidio. Il 74 per cento dichiarava che avrebbe fatto esattamente gli stessi investimenti. Del restante 26 per cento, il 17 per cento dichiarava che l’investimento sarebbe stato comunque fatto, ma in un periodo successivo. Solo il 2 per cento delle imprese dichiarava che l’incentivo aveva permesso di intraprendere un investimento che l’impresa non avrebbe potuto sostenere a causa della mancanza di altre fonti di finanziamento. Conclusione: i sussidi non fanno crescere gli investimenti.
Osserva Peter Thiel, il fondatore di PayPal e il primo privato che investì in Facebook (versò mezzo milione di dollari a Mark Zuckerberg nel 2004): «L’innovazione ci aveva promesso le automobili volanti, invece ci ha dato i 140 caratteri di Twitter». Non è accaduto per caso. Il motivo, secondo Thiel, è che nessuno Stato regola i bit, mentre gli atomi sono iper regolamentati.
Il problema non è l’esistenza di regole: è evidente che un’azienda non possa offrire voli su un nuovo aereo senza che un’autorità lo abbia prima controllato. Ma le regole non contemplano l’innovazione e quindi spesso la impediscono. Non è un caso che nel luogo al mondo dove vi è più innovazione, la California, quando un’azienda vuole introdurre un nuovo prodotto o un nuovo servizio non si usano le vecchie regole: se ne scrivono di nuove. E queste vengono scritte insieme, dall’azienda e dal regolatore pubblico.
Il nostro è un sistema costruito sulla gestione dell’esistente. Non sul futuro, non sull’innovazione. Vale per il governo come per le imprese. Chiedere il taglio delle tasse è doveroso. Meno facile è disegnare un ambiente favorevole all’innovazione. La produttività può e deve essere agevolata da contratti che rispecchino la nuova organizzazione del lavoro. Ma la triste vicenda della legge sulle liberalizzazioni è indice della disattenzione verso provvedimenti (a costo zero) fondamentali per innescare processi innovativi. Giace ferma in Parlamento da diciotto mesi. Ci sono colpe evidenti del governo, ma anche di chi, le imprese, non ha fatto sentire la sua voce. Anzi, come nel caso dei fondi pensione o dei servizi postali, ha frenato la rottura dei vecchi schemi.