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 2016  settembre 12 Lunedì calendario

Sul patrimonio artistico di Amatrice, invisibile e prezioso

Sono più di 60 le frazioni di Amatrice, minuscoli borghi sparsi fra montagne verdissime. Come ricercatrice, ne avevo visitate alcune, anni fa, per un progetto sui musei del Lazio promosso da Regione e Università. Era bastato per capire quanto quel patrimonio fosse invisibile e prezioso. Abitata già prima dell’epoca romana, cresciuta nel Medioevo, tra fine ’400 e inizio ’500 Amatrice aveva conosciuto il suo periodo aureo. Entrare nelle chiese di Santa Maria delle Grazie o Icona Passatora, a Ferrazza, di Sant’Antonio Abate a Cornillo Nuovo o di Santa Maria dell’Ascensione, o Filetta, a Rocchetta era un’emozione per chiunque.
Erano chiese aperte su richiesta, le chiavi custodite dal parroco o dalla signora del posto, come in tanti paesi italiani. Fuori semplici costruzioni di pietra, dentro pareti tappezzate di affreschi, in gran parte di anonimi artisti e di botteghe tutte da studiare. Figure dai colori vivissimi ripetute più volte, immagini di dolore o di trionfo: la Pietà, san Sebastiano, la Vergine della Misericordia, la Vergine che regge la città di Amatrice. Storie, come quelle della vita di Sant’Antonio, dalle proporzioni alterate e dal gusto grottesco. O scene di processione, come nell’abside della Filetta, dove si affolla un corteo di penitenti e aristocratiche fanciulle. Erano chiese di pellegrinaggio, chiese di transumanza, in una geografia dell’Appennino ribaltata rispetto al presente. La periferia era allora confine, nodo nevralgico di passaggio. Amatrice, crocevia tra domini papali e Regno di Napoli. Amatrice e suoi valichi di montagna, dove viaggiavano pastori, mercanti, artisti.

Un punto di partenza

Per far conoscere questa storia, ma anche per mettere in sicurezza (parola ardua da scrivere oggi) alcune opere mobili, era nato nel 2002 il Museo Civico Cola Filotesio. Anche questo in una chiesa – Santa Maria delle Laudi, poi Sant’Emidio – nel centro della cittadina; un edificio di impianto gotico, non lontano da Sant’Agostino e San Francesco. Era un piccolo museo, dove accanto agli affreschi con le Storie della Vergine
e agli altari lignei sei-settecenteschi erano esposte, ad esempio, la tavola di Cola dell’Amatrice o le croci processionali dell’orafo Pietro Paolo Vannini. Oggetti venerati per secoli dalla devozione popolare e spesso ancora in uso, come il quattrocentesco Reliquiario della Filetta, legato al culto di Maria (anche se in realtà custodiva un cammeo romano raffigurante Diana), tuttora al centro della processione dell’Ascensione.
Se nei musei civici italiani, che custodiscono e raccontano, fin dall’800, l’identità di un luogo, il legame con il territorio è tratto essenziale, particolarmente stretto appariva questo nesso nel museo di Amatrice: perché quel luogo era, doveva essere, un punto di partenza per andare alla ricerca dei contesti delle opere, e di altre opere e luoghi interconnessi, sulle montagne vicine.
Patrimonio di conoscenza
Eppure, erano pochi i turisti che visitavano le chiese dei dintorni e Amatrice era nota, fino ad oggi, soprattutto per la sua gastronomia. Anche se dipinti devozionali e amatriciana sono figli della stessa cultura agro-pastorale, figli della stessa montagna – se è vero che la ricetta, nella versione originaria, cacio e guanciale, nasce dalla cucina povera dei pastori.
Come far conoscere un territorio invisibile e rendere un museo quello che dovrebbe essere, un luogo vivo per i cittadini? Ne parlavamo con Brunella Fratoddi, architetto e operatore museale, e Floriana Svizzeretto, storica dell’arte e allora direttrice, infaticabili animatrici del museo. Promuovevano studi, si occupavano della manutenzione, organizzavano visite guidate, conferenze e spettacoli. Erano loro le mie guide. Con loro, gli abitanti di Amatrice, studiosi o semplici appassionati, che avevano a cuore la memoria e i luoghi del paese. Mi hanno accompagnato sulle impalcature dei restauri, mi hanno regalato pubblicazioni, si sono resi disponibili a raccontarmi le storie degli oggetti. Dietro ogni museo, dietro ogni sito di un piccolo comune c’è innanzitutto questo: un patrimonio di conoscenza, una rete di persone che resistono e che lavorano, nella quasi totale invisibilità. Nei problemi endemici della gestione: apertura, finanziamenti, personale.
Il Paese che non protegge
Quante volte lo si è detto, che è il patrimonio diffuso a costituire il tessuto vivo del nostro paese? Eppure, ben poco si discute con serietà dei sistemi più efficaci per gestire e fare conoscere quel patrimonio, ad esempio quello ecclesiastico, in Italia così rilevante. Mentre infuriano i dibattiti sui direttori dei grandi musei statali, i musei civici (di proprietà comunale, circa il 42% del totale) specie nei comuni minori, sono i grandi dimenticati.
Floriana Svizzeretto non ce l’ha fatta. È una delle quasi 300 vittime del sisma del 24 agosto. Queste righe vogliono essere un ricordo e un ringraziamento, per lei e per tutti gli altri. È recente la notizia del recupero delle opere nel museo, in parte crollato. I sopralluoghi delle squadre del Mibact evidenzieranno i danni ai beni culturali. L’opera di catalogazione realizzata a suo tempo da museo e Soprintendenza potrà, si spera, contribuire a recuperare e far rivivere quei luoghi.
«Il cuore d’Italia», hanno scritto i giornali. Dal silenzio che li avvolgeva, borghi e paesaggi quasi sconosciuti sono entrati di colpo nelle nostre case solo nell’ora della catastrofe. Chi ha camminato sui Monti della Laga e sui Sibillini, chi conosce quel cuneo di paesi tra Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo, nella fragilissima zona sismica 1, sa quanta bellezza c’è in quei luoghi. Ma l’Appennino è marginale, è da tempo periferia dell’Italia industriale e post-industriale. Spopolato, amato da chi resta e da chi torna, è talvolta meta di un turismo stagionale o di singole e coraggiose iniziative. Così, anche se magnificati a parole come oggetto di una chimerica valorizzazione, restano ai margini del nostro tempo anche gli altari, le immagini dipinte sui muri, le statue lignee, una lingua che è nostra e che insieme non è più nostra, che non sappiamo raccontare. E il Paese che non conosce e non riconosce i propri luoghi è lo stesso che non sa mettere in sicurezza il territorio, fare prevenzione, proteggere le vite umane.