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 2016  settembre 12 Lunedì calendario

Dibattito sul film di quattro ore in bianco e nero che ha vinto Venezia. Barbera vs Vanzina

La Mostra si è chiusa con la vittoria di The Woman Who Left, di Lav Diaz. Durata 4 ore, camera fissa, bianco e nero e, almeno per ora, nessuna distribuzione italiana. Perché i festival premiano spesso opere di questo tipo?
«Ai festival vincono i film difficili, quanti vincitori di Cannes o di Berlino sono stati successi al botteghino? I festival non sono vetrine commerciali, ma eventi la cui principale missione è difendere il cinema d’autore, penalizzato da un mercato che guarda agli incassi. Gli autori hanno bisogno di luce, di riflettori, i festival sono per loro l’unica occasione di promozione. Penso, per esempio, a Gianfranco Rosi, i suoi film non erano mai stati distribuiti in Italia, Sacro Gra, che ha vinto il Leone d’oro nel 2013, è stato venduto in 45 Paesi e nelle sale ha incassato circa 1 milione di euro».
Perché è importante pubblicizzare le opere autoriali?
«È un lavoro necessario, il pubblico va formato, educato, bisogna far sapere che, oltre il cinema che più facilmente si vede nelle sale, oltre i blockbuster, c’è altro. Oggi non esistono più le sale d’essai, e quelle che ci sono fanno fatica a restare aperte. Senza festival che difendano quel tipo di prodotto saremmo tutti condannati a vedere solo commedie omologate. E invece, per fortuna, ci sono registi che tentano di fare cose diverse».
Un film che dura 4 ore è ostico in partenza. Non crede che l’eccessiva lunghezza allontanerà dal vincitore di Venezia anche gli spettatori più volenterosi?
«La durata di un’opera è ormai una convenzione. C’è un sacco di gente abituata a consumare serie tv tutte in una volta, e lì sono ore e ore, molte di più di quattro. Al confronto quello di Diaz è un corto. Ha senso oggi porsi problemi di questo tipo? Se continuiamo a ragionare usando convenzioni di un altro secolo non andremo da nessuna parte. The Woman Who Left non ha ancora un distributore italiano, ma sicuramente chi vorrà conoscere il lavoro di questo regista potrà farlo cercandolo su tutte le piattaforme che vuole».
Il premio a Diaz stride con un Mostra che, quest’anno, ha dato grande spazio al cinema americano più amato dal pubblico e ai divi che ne sono l’essenza.
«Abbiamo cercato di fare una Venezia diversa, sostenendo il cinema d’autore, ma anche scegliendo registi che pur essendo considerati più commerciali tentano di sperimentare strade nuove. Il verdetto riflette quest’idea, i giurati hanno premiato Diaz perché il suo era il film più bello, ma anche la protagonista di La La Land, che è tutta un’altra cosa. I produttori Usa che sono venuti in laguna già parlano dei titoli che potrebbero portare qui nel 2017».
Come lei diceva, non è la prima volta che la Mostra premia film difficili. Le è mai capitato di non essere d’accordo con le decisioni di una giuria?
«Nel 2014 ha vinto Roy Andersson con Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza. È un film che amo e che meritava il Leone d’oro, però mi è dispiaciuto che la stessa giuria abbia ignorato un altro titolo in gara con enormi qualità, Birdman di Alejandro Gonzalez Iñárritu. Non hanno capito di trovarsi davanti a un capolavoro».
L’unico premio italiano è andato al documentario «Liberami». Secondo lei che cosa significa?
«Non ha più senso mantenere le storiche barriere che dividevano i due generi, cinema e documentari, le contaminazioni tra i due territori, finzione e realtà, sono un passo avanti. Documentari con la tensione narrativa di Liberami aprono nuovi spazi distributivi e consentono di riaffermare che l’unico spartiacque è quello che separa i film belli dai film brutti».

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A Venezia ha vinto il film del filippino Lav Diaz, «The Woman Who Left», esempio di un cinema d’autore molto elitario, difficilmente proponibile al normale pubblico che frequenta le sale. Che cosa ne pensa?
«La premessa è che non ho visto il film e quindi non posso formulare nessun tipo di giudizio specifico. Però, sulla vicenda, ho una mia precisa opinione che potrebbe farmi apparire molto antipatico, anche nei confronti del direttore Barbera che apprezzo e stimo...».
E cioè?
«Da anni la Mostra di Venezia è considerata un appuntamento molto importante, che ha il grande vantaggio di concentrare su di sé, per settimane, un’enorme attenzione da parte dei media. Un privilegio di cui bisognerebbe tenere conto, cosa che, invece, non mi sembra avvenga».
Perché?
«Chi organizza la Mostra dovrebbe avere uno sguardo più generalista, mettersi anche dalla parte di chi si occupa dell’evento, pubblicizzandolo, dandogli uno spazio così grande, quindi parlando per giorni e giorni di film. Premi come quello di quest’anno non aiutano, anzi....».
Che tipo di effetto possono provocare?
«Invece di fare bene al cinema finiscono per funzionare al contrario, e cioè per allontanare il pubblico. Il pericolo è che la gente vada a vedere l’opera che ha vinto il Leone d’oro a Venezia e che, dopo averla vista, non metta più piede in una sala per due mesi. E questo nuoce, ovviamente, anche ai film italiani. Insomma, una riflessione andrebbe fatta».
Che cosa, secondo lei, dovrebbe cambiare?
«Prima di tutto bisognerebbe fare scelte meno rigorose, premiando film che davvero meritano riconoscimenti. Ho letto di La La Land e ho capito che dev’essere un film bellissimo, perché non ha avuto il Leone d’oro?».
E dire che quest’anno il presidente di giuria era Sam Mendes, regista di campioni di incassi come «Skyfall» e «Spectre», che conosce bene le ricette del successo al botteghino.
«Appunto. Ho l’impressione che dare premi di un certo tipo serva a mettersi la coscienza a posto nei confronti della critica più esigente. È buffo, si fanno film da grandi incassi, poi si va a Venezia e si diventa tutti Eisenstein».
Quest’anno, al Lido, sono tornati in gran numero i film americani e, con essi, i divi che li interpretano. Un segno positivo?
«Sì, ma per salvarsi non basta far arrivare una star da tappeto rosso».
Qual è il maggior rischio che la Mostra, continuando su questa linea, può correre?
«Chi ha la guida della rassegna deve capire che, se non recupera il rapporto con il cinema visto dal pubblico, la Mostra finirà per diventare come il festival di Locarno, ovvero una rassegna di nicchia».
Quale cinema italiano potrebbe andare alla Mostra e invece non ci va?
«Sono convinto che potrebbero essere selezionati tanti film di registi considerati più commerciali, che però sono anche capaci di crescere e di mostrare altre qualità. Il problema è che gli italiani a Venezia non ci vogliono più andare».
In effetti è tradizione veneziana che il film italiani vengano spesso massacrati.
«Infatti, il talebanismo di quel tipo di pubblico mette paura, nessuno può aver voglia di affrontarlo».