la Repubblica, 12 settembre 2016
«Guarire da un tumore e vincere l’argento alle Olimpiadi: si può fare». Intervista a Daniele Lupo, medagliato nel beach volley a Rio
O maestro italiano s’è dimenticato dell’intervista. Squilla il cellulare. «Pronto?». «Arrivo subito, aspettami davanti al ristorante, scusami tanto…».
Passano quindici minuti, una Mercedes Classe A coupé turbo, nera, si ferma sulle strisce pedonali. Salta fuori “O maestro”, aka Daniele Lupo, argento olimpico di beach volley, uno dei personaggi più strampalati dell’intera spedizione azzurra a Rio. Italiano di passaporto, mezzo kazako d’anagrafe, romanissimo di sangue, a Copacabana conquistò tutti, forse perché con le infradito e i polpacci insabbiati pure a cena sembrava più brasiliano dei brasiliani. Allarga le braccia: «Scusami, stavo da Malagò e m’ero proprio scordato… Gli dovevo chiedere un consiglio…».
Su cosa?
«Aspetta che prendiamo un gelato». Si fa fare un cono gigantesco, fragola, crema, glassa di cioccolato e pure i croccantini sopra. «Io andavo a scuola lì», indica l’ingresso del Fevola, uno degli istituti romani noti per il recupero anni scolastici. «Un disastro».
Su cosa ha chiesto consiglio a Malagò?
«Be’, insomma, dopo l’argento il momento è delicato, mi cercano tutti, un sacco di chiamate, un sacco da fare…».
Quindi?
«Quindi, insomma… Vorrei fare cose... qualcosa...».
Cosa?
«Be’, sinceramente, vorrei fare qualche soldo...».
Le serve un procuratore.
«Esattamente. La medaglia d’argento vinta insieme a Paolino (Nicolai, il suo compagno, uno che è alto più o meno il doppio di lui, ndr) è stata una delle più belle. E ora si sono aperte un sacco di opportunità. Sul podio a Copacabana, porca miseria! Il posto dove è nato il mio sport».
Il vôley de praia... A proposito come è nata questa cosa del “maestro italiano”?
«È stato durante le presentazioni. Lo speaker mi aveva visto giocare la gara prima e ha detto questa cosa. Mi sono chiesto: chissà chi è ‘sto maestro. Poi ho capito che ce l’aveva con me e mi sono messo a ridere. A me piace cazzeggiare in campo, col pubblico. È una delle mie caratteristiche».
Il cazzeggio?
«Sì. Non riesco a separarlo dalla fase agonistica. All’Albos (uno stabilimento di Fregene) gioco cattivo come alla finale olimpica, e alla finale olimpica cazzeggio come all’Albos. Per me il beach, è tutto insieme, agonismo selvaggio, impegno, ma anche divertimento senza limiti, tocchetti bastardi, palle sporche».
Il ritorno a Fregene?
«Ho fatto una festa con mio nonno e gli amici suoi. Tutti settantenni. Ho cominciato con loro a giocare quando ero ragazzino. Partite tre contro tre, no rules. Fichissimo: valeva tutto, pure i pacchi e le appozzate (cioè le varianti proibite di backer e schiacciate, ndr). È stato giocando con loro che ho elaborato il mio stile. Adesso però lo devo migliorare. Perché mi serve anche un piano b. In finale con la pioggia, la palla mi scivolava dalle mani mentre facevo certi colpi che di solito invece non sbaglio mai».
L’argento è un bel risultato.
«Sinceramente? Ancora me rode er culo. Poi per carità, anche fosse stata di bronzo, la medaglia sarebbe stata comunque straordinaria. La indossi e senti il peso della storia».
Dove l’ha messa?
«L’ho nascosta. Ho il panico che me la freghino. Domenica scorsa avevo la febbre, così ho disertato i campionati nazionali e sono andato a fare un torneo con gli amici all’Albos. Dopo le partite l’ho messa al collo di tutti, avrò fatto 2000 selfie, poi sono tornato a casa e l’ho fatta sparire».
Sembra così spensierato, eppure lei ha superato un momento molto difficile.
«Sì. Un anno fa, mi hanno detto che avevo un tumore. Sono rimasto paralizzato dal terrore. Poi un giorno ho chiamato mio papà: “Pa’ me sa che questo è un esame. Una sfida. Guarda come vinciamo le Olimpiadi…».
Davvero?
«Sì, e lui è stato fantastico. Lui, il professore che mi ha curato, e la mia fidanzata Alice. Grazie a loro sono riuscito a trasformare una cosa terrificante in benzina. Me la sono trovata nel serbatoio nei momenti duri. Quando sei stato ricoverato con quella diagnosi, quando hai visto nel letto a fianco uno a cui avevano appena tolto un rene, o un vecchietto che stava per morire, beh andare sotto di sette break in una partita, per quanto importante, diventa, diciamo così, fattibile».
Fattibile?
«Già. È la cosa che mi porto a casa da Rio. Il mio messaggio. Guarire da un tumore e vincere una medaglia ai Giochi? Si può fare. E questo non ho bisogno di nasconderlo da nessuna parte».
Rovescia il gelato, dà un morso alla fine del cono, e succhia via tutta la fragola.