La Gazzetta dello Sport, 11 settembre 2016
Quando si giocò a calcio nella Piazza Rossa e Stalin si emozionò
Il selciato della Piazza Rossa era coperto da un immenso manto verde. Non era erba, ma dodicimila metri quadrati di feltro che gli operai delle fabbriche tessili avevano confezionato in tutta fretta: l’ordine arrivava direttamente dal Ministero dell’Interno, si doveva soddisfare il desiderio del Grande Capo, Josip Stalin. Squadre di imbianchini vennero impiegate per pitturare le linee bianche di una finta pista di atletica. Il palco doveva essere perfetto per la rappresentazione. Fu ingaggiato anche un importante regista di teatro per supervisionare la messinscena. Dopo giorni e giorni di lavoro l’opera fu completata, i severi dirigenti del Ministero dell’Interno diedero l’approvazione e comunicarono al Grande Capo che la partita avrebbe potuto avere luogo quando lui desiderava. «Domani!» ordinò.
IL CALCIO È INGANNO Mosca, 1936. Mentre i dissidenti finivano in Siberia e l’esercito dell’Armata Rossa si preparava alle grandi battaglie in nome del proletariato e del comunismo, Stalin si accomodava su una tribunetta issata proprio davanti al mausoleo di Lenin, pronto ad assistere a una partita di calcio. Non che fosse un appassionato, tutt’altro: considerava il calcio uno sport borghese, ne deplorava il costante ricorso all’inganno, perché un inganno per lui erano il dribbling o la finta, e non sopportava che qualcosa nato in Inghilterra potesse avere un tale successo. Tuttavia si convinse che tirare calci a un pallone era un’attività che piaceva al popolo, e agli umori del popolo il Grande Capo era particolarmente sensibile. Non per convinzione democratica, sia ben chiaro, ma perché le braccia degli uomini e delle donne gli servivano nelle guerre e nelle fabbriche: il sogno del primato doveva essere trasformato in realtà. Così Stalin accettò di essere spettatore di una sfida che, in suo onore, venne organizzata tra la squadra A e la squadra B dello Spartak Mosca, la società che, assieme alla Dinamo, primeggiava in quel periodo. Lo Spartak era stato fondato dai quattro fratelli Starostin. Nikolaj, il più vecchio, ne era giocatore, capitano e allenatore. Il club, come si evinceva dal nome, non era l’espressione del potere politico o burocratico, ma del popolo: Spartaco era lo schiavo che si era ribellato nell’antica Roma. La Dinamo, invece, apparteneva al Ministero dell’Interno; la Lokomotiv era la squadra dei ferrovieri; la Torpedo quella delle fabbriche di auto; e il Cska era il club dell’esercito. Loro, i fratelli Starostin, erano legati al Komsomol, l’Unione Comunista della Gioventù: rappresentavano qualcosa di nuovo, e per questo di temibile, nel panorama sovietico.
ODIO E VENDETTA Lavrentij Berija, presidente onorario della Dinamo e soprattutto capo dei servizi segreti e supremo padrone della Lubjanka, il palazzo dei servizi segreti, odiava i fratelli Starostin e il loro Spartak. Forse, ad alimentare questo sentimento, c’entrava anche una vecchia storia capitata negli anni Venti proprio su un campo di calcio: Berija era un discreto giocatore, ma non un fenomeno, mentre Nikolaj Starostin era una veloce ala destra che, durante una partita, sfuggì in tutti i modi, un dribbling dietro l’altro, al futuro capo dei servizi segreti, e lo umiliò di fronte ai suoi compagni. Una figuraccia che andava vendicata. Per questo Berija fece di tutto perché non si disputasse la partita sulla Piazza Rossa dove, inevitabilmente, i fratelli Starostin, e Nikolaj in particolare, avrebbero avuto i complimenti e gli applausi di Stalin. Il suo piano, tuttavia, fallì e l’arbitro diede l’inizio alla gara. Pochi istanti prima Nikolaj e il segretario del Komsomol avevano parlato a lungo e si erano accordati: la partita sarebbe durata trenta minuti, due tempi di un quarto d’ora ciascuno, perché si temeva che il Grande Capo si annoiasse. In ogni caso, se si fosse accorto che Stalin dava segni d’insofferenza, il responsabile del Komsomol avrebbe sventolato un fazzoletto bianco e Starostin, in campo, avrebbe capito che era arrivato il momento di finire le danze. Ma non ci fu bisogno di agitare il fazzoletto al vento, perché Stalin si divertì parecchio e chiese che la sfida si protraesse oltre il tempo stabilito. Si giocò per un totale di 48 minuti e il risultato fu di 4-3. Alla fine il Grande Capo strinse la mano a Starostin, ai suoi fratelli e agli altri calciatori. E Berija, vicino a lui, era livido di rabbia.
DOPPIO FINALE Passarono sei anni, durante i quali lo Spartak continuò a vincere e conquistò un posto importante nel cuore del popolo sovietico. Poi, in una fredda mattina d’autunno, a casa Starostin si presentarono gli agenti segreti. Prelevarono Nikolaj e lo condussero al Palazzo della Lubjanka, nei cui sotterranei rimase per due anni. Era in arresto. L’accusa: propaganda di sport borghese. Anche i suoi fratelli finirono in prigione. Li interrogarono e li torturarono. Poi, come accadeva sempre, fecero loro firmare un foglio nel quale si autoaccusavano. Erano i metodi di Berija, il cui potere era diventato immenso. I fratelli Starostin furono processati e spediti in un gulag in Siberia. Dodici anni lì dentro a marcire per colpa di una partita giocata sulla Piazza Rossa. La vendetta era stata consumata. Ma il feroce Berija non aveva fatto i conti con la storia: Stalin morì nel marzo del 1953, salì al potere Kruscev e i crimini del periodo precedente vennero svelati. Così Starostin potè finalmente tornare libero, a respirare l’aria di Mosca e ad allenare il suo Spartak, mentre Berija, durante una tumultuosa riunione politica del Partito Comunista, venne misteriosamente ucciso. Non si seppe mai da chi. I muri della Lubjanka non vedono e non parlano.