La Stampa, 9 settembre 2016
Belmondo, il Leone alla carriera di una simpatica canaglia
Cammina a fatica, aiutandosi con il bastone. Per issarlo sulla pedana devono quasi sollevarlo di peso. Anche la parola è un po’ faticosa. Gli anni sono 83, e nel 2001 fu colpito da un’ischemia. In compenso il sorriso da simpatica canaglia è sempre quello. Bebel, ancora lui.
Abbronzatissimo, cravatta rossa, rosetta della Legion d’onore all’occhiello, le mani coperte di grandi anelli, ecco a voi Jean-Paul Belmondo, uno dei due Leoni d’oro alla carriera di questa Mostra (l’altro l’aveva già ritirato Jerzy Skolimowski) consegnato ieri dalla B2, il duo Baratta-Barbera, rispettivamente presidente della Biennale e direttore della Mostra. I giornalisti, al solito, non hanno capito nulla e alla conferenza stampa ce ne sono pochi. Invece il pubblico gremisce la Sala Grande e accoglie il vecchio leone venuto a prendersi il Leone con una standing ovation, tutti in piedi fra l’impazzare dei flash e dei ricordi.
Loren, Delon, Godard
Lui è contento, anzi raggiante, ma rifiuta di arrendersi alla commozione, non sarebbe da Bebel. È una celebrazione, non una commemorazione. L’aveva detto poco prima ai giornalisti: «Non penso mai al passato, ma sempre al futuro. Il mio motto è: demain, demain, demain».
Sophie Marceau, che lo accompagna, non è solo bellissima, ma sa anche trovare le parole giuste. Ricorda i cinquant’anni abbondanti di carriera, i 130 milioni di spettatori, la star popolare e l’attore completo, il gangster di mille film e filmetti ma anche l’icona della Nouvelle Vague, l’ex boxeur diventato attore, il seduttore e il padre di famiglia: «Non avevi paura di niente».
Lui, il festeggiato, parla poco ma dice moltissimo. Diverte e si diverte quando fa l’elenco delle dive che gli sono passate per le braccia, e allora per ogni Loren-Lollobrigida-Cardinale-Deneuve, ma si farebbe prima a dire chi non c’è, sbuffa ammiccando un «oh!» da pascià soddisfatto. Il bel mondo di Belmondo. Ricorda che era disoccupato a Parigi dopo essere andato invano a Cinecittà quando arrivò il telegramma di De Sica, che lo chiamava per La ciociara. «Ho sempre amato il vostro cinema», dice, e in effetti è sempre stato il più italiano degli attori francesi (del resto, è figlio di uno scultore emigrato), magari insieme con il grande e troppo dimenticato Philippe Noiret.
Le risposte sono brevi ma non banali. Con l’età si diventa più bravi? «Certo, si impara». Con Delon siete ancora rivali? «Eravamo colleghi, siamo amici». Meglio il cinema d’autore o i blockbuster? «Mi sono divertito in entrambi. È come la vita: un giorno si ride, un giorno si piange». E Godard? «Avevo fatto teatro per nove anni, poi arrivò lui a propormi Fino all’ultimo respiro, e fu l’inizio della mia carriera». Che ricordi ha di Venezia? «Il più curioso è quando in un film la sorvolai appeso a un elicottero». Ha dei rimpianti? «Ho fatto tutto quel che dovevo». E adesso? «Adesso amo il sole e il mare». Però nel 2008, già colpito, accettò di recitare il remake diUmberto D a una condizione: che lo filmassero così com’era, senza controfigure. A proposito, Belmondo: c’è un suo erede? «Ce ne sono tanti, sta a loro. Ma oggi la felicità è più difficile».
Appunto. Negli applausi non di circostanza di ieri c’era anche la nostalgia agrodolce per un mondo, e un cinema, forse più felici e sicuramente più facili, quando un gangster poteva ancora essere simpatico e una star sedurre pure fuori dal set senza infrangere i tabù del politicamente corretto. O magari tutti i tempi, quando sono antichi, sono automaticamente anche buoni. Ma in quell’affetto, in quelle ovazioni, in quei «ti ricordi» (e giù liste di film, variabili a seconda della memoria e dei gusti dei cinéphiles) c’è soprattutto la gran voglia di identificazione. I festival, siano di cinema come di teatro, di arte, di letteratura, di musica, di danza, insomma tutti, servono anche e forse soprattutto a questo: a condividere una passione. Che è poi la vera ragione per cui si continua a farli (e a frequentarli, anche).