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 2016  settembre 08 Giovedì calendario

Due o tre cose su Antonio Giovinazzi, nuovo fenomeno del volante

Il selfie alla fine l’ha fatto. «Ma ho inquadrato la mia emozione, più che la scritta Ferrari alle spalle», racconta Antonio Giovinazzi ora che quel test al simulatore della Rossa si è cementato nei ricordi. Lunedì 5 settembre: un giro nel «ragno» dove provano Vettel e Raikkonen per scoprire che «all’inizio stai perfino male e che il mondo va in giostra», ma che poi queste F1 ibride che fanno andare lungo («due volte, nel mio caso») sono animali domabili anche se la frenata «dà strane sensazioni e il motore non lo senti».
Lunedì 5 settembre, il giorno dopo il Gp d’Italia e, nel suo caso, dopo un fine settimana con un primo e un terzo posto in Gp2, le munizioni per caricare il cannone e per attaccare, nelle due ultime gare, in Malesia e ad Abu Dhabi, il primato del francese Gasly, suo compagno di squadra alla Prema: «Al Mondiale penso eccome: centrarlo da rookie varrebbe il doppio. Ma se ce la facessi, non potrei più gareggiare in Gp2: chi vince, deve lasciare». Non rimarrebbe però disoccupato, siamo pronti a scommetterlo: «In effetti io penso di diventare un driver professionista e ci sono altre opportunità oltre alla F1» dice il ventiduenne delle rimonte impossibili, un tedesco di Martina Franca che con metodo, sacrifici e volontà («dicono sia la mia dote migliore») ha scalato i consensi senza scorciatoie «perché solo il lavoro dà il risultato e solo il risultato rende credibili».
Quello di Antonio Giovinazzi, ragioniere in parcheggio perché la precedenza l’ha il pilota, è un cliché da predestinato. Il nonno materno e il padre, mettendolo su un kart a due anni e mezzo, gli hanno dato il contagio. Il resto è opera sua, in una storia dove centrano anche puffi, amicizie vere e polli fritti. «Puffo era il primo kart con motore da 38 cc: lo guidavo a tre anni. L’amico è Sean Ricardo Gelael, indonesiano, mio compagno di corse ma colui che, grazie a suo padre, mentore-mecenate, mi ha permesso di dedicarmi a questo sport. Detto come va detto: senza di lui non avrei mai avuto i mezzi». Mr. Gelael è il re asiatico del pollo alla Kentucky Fried Chicken: vuoi vedere che un giorno sulla Ferrari comparirà il logo di un pennuto? Risata di Antonio e sano realismo: «Sulla macchina, non credo. Ma sulla tuta o sul casco lo vorrei di sicuro. Però, perché parliamo di questo? La Ferrari è il team numero uno ed è un sogno, mica mi sto montando la testa».
Peraltro dopo quel test, «per quanto non sappia come sono andato: chi mi ha assistito è stato professionale e ‘amico’, ma non ha spifferato nulla», Antonio le idee chiare le ha: «Sono a ridosso della F1, devo provarci». Ammette che accetterebbe qualsiasi chiamata «purché ci sia qualcosa di serio alle spalle» ed è disposto ad aspettare come ha fatto Vandoorne, «che però nel 2017 sarà sulla McLaren». Il ragazzo cresciuto nel mito di Senna e Schumacher, il guerriero che oggi ammette che se dovesse fare due chiacchiere con Hamilton probabilmente si impappinerebbe «perché sarei emozionato davanti al migliore», ha cuore da leone e pazienza da cinese: chi lo prenderà, non sbaglierà.